La manipolazione e la rimozione del passato in funzione degli interessi politici del presente definisce con precisione il regime di Putin e il nuovo nazionalismo russo. Dal Gulag alla Seconda Guerra Mondiale, non c’è ambito storiografico che il governo non si incarichi di adattare alle circostanze e alle convenienze attuali
Da tempo volevo scrivere di Yuri Dmitriev. La sua non è una semplice storia di abuso di potere e giustizia sommaria nella Russia di Vladimir Putin, ma un simbolo dell’eterna tensione tra uomo comune e autorità, che soffia da sempre come un vento gelido sulle immense spianate del Paese fino a farsi tragedia collettiva nell’esperienza sovietica. Dmitriev, orfano, padre di famiglia e storico per passione, esce da un racconto di Cechov per ficcarsi tra le sopracciglia aggrottate di un ex agente del KGB che si è dato per missione quella di restaurare l’orgoglio nazionale sepolto dalle macerie del comunismo, usando come ricostituente contraffatto il controllo selettivo del passato. Aspirazioni individuali, ricerca della verità, memoria condivisa, potere: il futuro della Russia attuale si gioca tra questi quattro poli spesso opposti. Yuri Dmitriev appartiene ai primi tre. Vladimir Putin al quarto.
Dopo anni di ricerche, nel 1997 Dmitriev, insieme ai colleghi della fondazione Memorial (che si occupa dalla fine degli anni ’80 di raccogliere, catalogare e proteggere le testimonianze della repressione sovietica), scopre in una foresta della regione nordoccidentale della Karelia un’immensa fossa comune con i resti di 9.000 vittime del terrore staliniano. Sono gli anni d’oro della storiografia russa dopo la caduta del regime, quelli in cui si aprono gli archivi e con essi la possibilità di far luce sulle tragedie del periodo comunista. La località, conosciuta come Sandarmokh, diventa teatro di esecuzioni di massa tra l’ottobre del 1937 e il dicembre del 1938: vi trovano la morte 3.500 abitanti della Karelia, 4.500 deportati che lavorano alla costruzione del canale sul Baltico e 1.111 detenuti nel lager di Solovki, uno dei campi più inospitali e isolati, definito da Solgenitsin “la madre del Gulag”. Quest’ultimo gruppo corrisponde alla quota di giustiziabili richiesta dall’NKVD al responsabile del centro penitenziario, secondo le direttive del Partito che, come in un piano quinquennale della morte, assegna ai vari territori gli obiettivi da raggiungere. I condannati vengono fatti inginocchiare davanti a una fossa comune e finiti con un colpo d’arma da fuoco alla nuca, lo stesso metodo che sarà utilizzato due anni dopo nella foresta di Katyn contro migliaia di ufficiali polacchi. Un marchio di fabbrica dello stalinismo.
Il lavoro di Dmitriev è confluito recentemente in un libro, “Sandarmokh. Luogo di memoria”, in cui si restituisce un’identità ad almeno 5 mila persone uccise in quel campo di sterminio e si identificano i responsabili delle esecuzioni. Il 13 dicembre 2016 Yuri Dmitriev è arrestato per la prima volta con l’accusa di pornografia infantile. Nel suo computer vengono trovate foto della figlia adottiva allora undicenne, giudicate dalla polizia “compromettenti” ma in realtà scattate per monitorare la sua crescita su consiglio dei medici. Passa 13 mesi in prigione prima di essere assolto. Due mesi dopo, siamo nel giugno 2018, arriva il secondo arresto con l’accusa di aver abusato sessualmente della bambina che non vedeva da due anni. Il processo si basa sull’unica testimonianza della nonna, che l’aveva abbandonata in un orfanotrofio prima dell’adozione da parte della famiglia Dmitriev. A luglio arriva la sentenza di condanna a tre anni e mezzo, quasi interamente scontati in custodia preventiva. Ma le autorità non ci stanno, Yuri Dmitriev non può uscire di galera. Interpongono appello alla Corte Suprema della Karelia che, pochi giorni fa, decide di rinchiuderlo per altri dieci anni in una colonia penale di massima sicurezza: Dmitriev ha 64 anni, una condanna a vita.
L’accanimento e la persecuzione contro un uomo chiaramente innocente, la cui unica colpa è stata quella di far luce sulla storia recente del suo Paese, sono la logica conseguenza della stretta legale contro le ong decisa da Putin nel 2012, la famigerata legge che da allora le associa alla categoria di “agenti stranieri”. Sotto questa normativa sia la fondazione Memorial che il Sakharov Centre sono stati più volte sanzionati nel corso degli anni. Ma c’è di più. Dopo un decennio in cui il lavoro degli storici sul Gulag e in generale sulle repressioni del periodo sovietico viene sostanzialmente ignorato, durante la seconda parte del mandato presidenziale di Putin (a partire dal 2010) lo Stato decide di assumere il ruolo di interprete della storia ufficiale, passando da un atteggiamento passivo di non collaborazione a uno attivo di sovrapposizione e di intimidazione nei confronti dei ricercatori indipendenti. L’accesso agli archivi è limitato, la sorveglianza aumentata, la giustizia usata come arma contro le voci non omologate, quelle che mettono in discussione il discorso nazionale promosso dal centro, in cui anche il passato totalitario va riletto in chiave positiva se funzionale agli obiettivi di sviluppo e di consolidamento della “patria russa”. Per questo uno degli emendamenti alla Costituzione recentemente approvati con referendum (art. 67) assegna letteralmente allo Stato e non agli storici il compito di “assicurare la protezione della verità storica”; per questo nel 2016, mentre si fabbricano le accuse contro Dmitriev, il governo decide di inviare una squadra di soldati a Sandarmokh con il compito di riesumare i resti di alcuni cadaveri, al fine di dimostrare che in realtà non si trattava di vittime dello stalinismo ma di effettivi dell’Armata Rossa uccisi da militari finlandesi durante il conflitto del ’39-’40.
La manipolazione e la rimozione del passato in funzione degli interessi politici del presente definisce con precisione il regime di Putin e il nuovo nazionalismo russo. Dal Gulag alla Seconda Guerra Mondiale, non c’è ambito storiografico che il governo non si incarichi di adattare alle circostanze e alle convenienze attuali. Le ragioni sono profonde e meriterebbero uno studio a parte: di certo in questa fossilizzazione della memoria giocano un ruolo la sostanziale continuità tra istituzioni sovietiche e russe (al momento della dissoluzione dell’URSS cambia la natura del regime ma le strutture portanti del sistema servono da piattaforma per i nuovi arrivati) e l’assenza di un reale esercizio collettivo di analisi, giudizio e riconciliazione sul periodo totalitario. La vendetta dello Stato contro Dmitriev è un segnale inequivocabile di questa cattiva coscienza che, oltretutto, indica un salto di qualità nella strategia del Cremlino: il passaggio dalla fase della propaganda spinta a quella dell’aperta repressione.
Lo scorso maggio 150 personalità della cultura firmano una lettera aperta al tribunale in cui si svolge il processo, dichiarando il loro appoggio allo storico contro “le ingiuste accuse a lui rivolte”. Nel suo discorso finale alla corte (di cui consiglio vivamente la lettura integrale), Dmitriev spiega il suo concetto di patriottismo, che non può limitarsi alle parate militari del 9 maggio in onore dei caduti nella Grande Guerra Patriottica ma deve comprendere anche il ricordo delle vittime di quella guerra interna che lo Stato sovietico condusse contro i propri cittadini: “Provo a recuperare i loro nomi perché solo la memoria può rendere davvero tale una persona”. Fate conoscere il nome di Yuri Dmitriev e di Sandarmokh.
Voglio scrivere anche di Irina Slavina, giornalista, di Nizhny Novgorod, ridente cittadina sul fiume Volga, al centro della Russia europea. Alle sei del mattino di giovedì primo ottobre la polizia e vari corpi speciali di sicurezza si presentano a casa sua per perquisirla. Cercano prove delle sue attività con il gruppo di opposizione che fa riferimento a Mikhail Khodorkovsky, ex oligarca oggi in esilio dopo una lunga persecuzione giudiziaria. Non è la prima volta che le autorità la prendono di mira per il suo lavoro sul sito di informazione e per la partecipazione ad alcune manifestazioni di protesta. Stavolta, però, Irina non ce la fa più. Il giorno dopo l’ennesima umiliazione, nel pomeriggio, scrive un ultimo messaggio su Facebook: “Della mia morte incolpate la Federazione Russa”. Poi esce di casa e va a sedersi su una panchina di fronte alla sezione locale del Ministero dell’interno, fra tre statue di bronzo dedicate alla polizia. E si dà fuoco. Un passante cerca di avvicinarsi per spegnere le fiamme ma lei lo allontana scalciando. Vuole morire e vuole farlo così, in un falò, un simbolo inconfondibile di protesta e di dignità. C’è un video di un minuto che riprende la sua agonia ed è una sequenza straziante. Il fuoco la avvolge velocemente, la solleva, la getta al suolo e la accartoccia, come un foglio di carta che si disintegra. Irina Slavina era madre di una adolescente che, poche ore dopo i fatti, si presenta sul luogo del suicidio con un cartello di denuncia: “Mentre mia madre bruciava voi rimanevate in silenzio”. Quella panchina di Nizhny Novgorod adesso è piena di mazzi di fiori. Ma il nome di Irina Slavina è destinato all’oblio. La memoria, nella Russia del XXI secolo, è stata confiscata dallo Stato.