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La “moda” dell’educazione gender: da una battaglia per i diritti all’indottrinamento dei bambini

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È da qualche anno ormai che sentiamo parlare di società liquida e gender fluid. Fenomeno, quest’ultimo, evolutosi in una specie di moda per progressisti, un po’ come a suo tempo lo sono stati il veganesimo o l’ecologismo sfrenato.

Le star di Hollywood – anche quelle che nel frattempo hanno acquisito titoli nobiliari, vedasi la neo-duchessa del Sussex Meghan Markle – la cui massima forma di alternativismo un tempo era limitata allo yoga o alla meditazione trascendentale, ora predicano per i propri pargoli o nascituri la nuova filosofia del gender-neutral, gender-free o che dir si voglia. Niente camerette rosa o azzurre, tutto di un rigoroso e monacale bianco e grigio, sì a vestitini genderless, no a fiocchetti e gonnelline. Viva l’infanzia da asessuati.

Ma se nel mondo dei vip impazza il nuovo trend politicamente correttissimo, anche il Paese reale si lascia contagiare e a farne le spese sono appunto i più piccoli e in particolare la loro educazione, in quanto vittime inconsapevoli del totalitarismo gender che aleggia sulle proprie teste e si trasforma in lezioni ed esperimenti da parte di insegnanti e educatori, caduti ormai come in uno stato ipnotico.

Il metodo progressista è sempre lo stesso e sempre illiberale, un profluvio di nebulosa legislazione nella vita dei cittadini e di sostituzione del Leviatano alla libertà educativa della famiglia.

La diffusione del fenomeno è internazionale, ce n’è per tutti, si va dal centro estivo di Casalecchio sul Reno (Bologna), dove la scorsa estate gli educatori avrebbero realizzato per bambini fino a cinque anni – all’insaputa dei genitori – laboratori di pittura, scrittura e lettura per festeggiare il gay pride, fino alla scuola inglese di Warrington, dove l’insegnante avrebbe chiesto ai bambini di scrivere una lettera d’amore a tema omosex.

Si è lasciata trascinare da questa nuova tendenza anche la nostra televisione pubblica, mandando in onda una puntata del programma “Alla lavagna” con Vladimir Luxuria come ospite ad intrattenere una classe di bambini di circa dieci anni con una lezione sulla diversità e il transgenderismo.

“Non si diventa gay, si nasce così”, ha spiegato l’ex parlamentare ai piccoli dai volti confusi, in piena conformità con quella corrente che tende ad annullare la verità biologica per affermarne una di stampo ideologico e culturale.

Un’affermazione provocatoria forse, in un contesto di discussione fra persone adulte, ma che in un gruppo di bambini che nutre ancora seri dubbi sull’esistenza o meno di Babbo Natale risulta forzata e fuori luogo. Proprio quei bambini dovrebbero poter crescere, sviluppare le proprie idee e un domani le proprie scelte, liberi da qualsivoglia tentativo di indottrinamento, soprattutto sotto il profilo sessuale, avendo la natura già fornito loro abbastanza elementi per un’autonoma e individuale valutazione futura.

Se risulta infatti condivisibile il racconto ai bambini di una storia di discriminazione, volto a educare contro ogni forma di violenza, appare non educativa e piuttosto semplicistica l’idea che basti un cambiamento fisico ed estetico ad appagare un senso di disagio verso la propria natura, narrazione piuttosto riduttiva viste le storie di reale sofferenza che si celano dietro tali situazioni.

Non bastano infatti tacchi, make-up e una mastoplastica per diventare donne. Donne si nasce, non si diventa, con buona pace di Simone De Beauvoir – che chi scrive apprezza per ben altri aspetti – non è una condizione a cui si possa giungere con estrogeni e chirurgia.

È così quindi che si propone una lezione sulla diversità e si finisce con un tentativo di manipolazione intellettuale delle coscienze più giovani, insistendo sull’inesistenza delle differenze sessuali, propagandando quel genderismo che vuole tutti uguali, un unico essere neutrale che si distingue dagli altri solo per le proprie tendenze, che siano esse eterosessuali, omosessuali o transessuali.

È una società che ha deciso di sacrificare la libertà sull’altare del politicamente corretto, punendo ogni libertà d’espressione o pensiero – pena accuse d’ufficio di bigottismo, omofobia, anti-progressismo – e spingendo anche i più giovani ad uniformarsi al pensiero unico prestabilito.

È così che l’originario tentativo di portare avanti una battaglia per i diritti di una minoranza è degenerato in quello di erosione dell’identità di una maggioranza, declassata a “stereotipi di genere”. E tutti ci sono cascati, pervasi da quel senso di buonismo con cui l’uomo occidentale prova a mondare la propria coscienza, quello che potremmo sartrianamente definire un umanitarismo di provincia.

A difesa delle coscienze dei più giovani c’è ancora qualcuno che non ha perduto il buonsenso dietro alla liquefazione della società, come il neo-presidente brasiliano Bolsonaro, che ha espressamente dichiarato di voler mettere fine all’insegnamento gender nelle scuole per difendere la dignità dei più piccoli, decisione assunta di recente anche dalle nostre parti dalla giunta del Trentino-Alto Adige o persino l’attuale pontefice – di certo non un conservatore – che si è espresso al riguardo in termini di “colonizzazione ideologica” e frutto di “frustrazione”.

Tutelare le coscienze delle generazioni future dovrebbe essere la priorità di qualsiasi amministrazione e soprattutto i genitori (si può ancora dire mamma e papà o risulta discriminatorio?) dovrebbero poter esprimere il proprio consenso in caso di organizzazione di attività pro-gender.

A tale proposito sarebbe da auspicare un intervento legislativo volto ad emendare l’attuale normativa in materia di educazione di genere nelle scuole, che basterebbe limitare a misure miranti a combattere ogni forma di discriminazione e violenza, prima che qualcuno – spinto da una insana voglia di transumanesimo – pensi di poter abolire la natura umana. Prima di giungere, prendendo in prestito un’espressione di Calasso, all’inversione dell’origine.

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