La vittoria di Marco Cappato nella (non) decisione della Consulta sul caso Dj Fabo che lo vede imputato è limpida. E la sua battaglia, a viso aperto, per l’eutanasia (molti parlano di “fine vita”, un termine più neutro e, forse, più rassicurante per l’opinione pubblica) è vera disobbedienza civile, al contrario di quella posticcia e postuma di Mimmo Lucano. Con le loro disobbedienze civili Marco Cappato e Rita Bernardini – che si batte per la giustizia e la dignità nelle carceri, temi che purtroppo, ma non sorprende, non ricevono la stessa attenzione mediatica – sono forse, ad oggi, i migliori eredi della tradizione di lotta politica pannelliana.
Tutto ciò non può però impedirci di ravvisare l’ennesimo intervento politico della Consulta. Una decisione senza precedenti, pilatesca, e ai limiti della sovversione. Dispiace constatare che proprio i radicali, in passato così attenti e rigorosi nel denunciare ogni minima sgrammaticatura istituzionale (tanto da denunciare la “peste italiana”), non abbiano colto qualcosa di stonato, un sottosopra in questa Corte che riesce allo stesso tempo a prendersi poteri che non ha, e a non esercitare invece i poteri che le sono attribuiti. Si legge nel comunicato ufficiale della Consulta che “l’attuale assetto normativo sul fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti”.
Se dichiarare legittimo l’art. 580 c.p. non avrebbe tutelato “situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione”, come quelle di Dj Fabo e Cappato, perché non dichiararne la illegittimità, almeno parziale, almeno in casi simili? È del tutto evidente infatti che il loro caso non è in alcun modo paragonabile a qualcuno che viene spinto, incoraggiato, accompagnato al suicidio per aver perso il lavoro, la fidanzata o essere stato bocciato a un esame.
È corretta la lettura di Marco Cappato (la Corte “non ha solo rimandato: ha anche riconosciuto l’inadeguatezza della legge”) così come quella del suo avvocato (“non rivolge un semplice monito, ma mette in mora il Parlamento”).
Ed è questo il guaio. La Corte non ha poteri “ordinatori” nei confronti del Parlamento. Non può “ordinare” al legislatore di legiferare, né dettarne l’agenda, addirittura ponendo una scadenza, mettendolo “in mora”, sulla base di un vuoto forse politico ma non giuridico. Manca una legge sul “fine vita”, è vero. Ma la sua assenza, l’opportunità di legiferare in merito e come farlo, sono un fatto politico. Dal punto di vista giuridico la Corte aveva di fronte a sé tutti gli elementi per la soluzione del rebus. Decisione non facile, ma li aveva: una norma chiarissima (ma scritta quando casi come quello di Dj Fabo e di tanti altri non erano, diciamo, frequenti) e i principi costituzionali.
La Corte non può pretendere di bocciare una norma politicamente, con un comunicato in cui suggerisce al legislatore come superarla (in pratica, un messaggio alle Camere…), ma non nell’unico modo in cui è chiamata a farlo, cioè dichiarandola illegittima. Non è chiamata a riconoscere “nuovi” diritti, intimando poi al legislatore di ratificarli. Ma deve giudicare sulla base dell’assetto normativo e costituzionale esistente. Decidere, qui e ora, se la norma in questione sia legittima o meno e applicabile al caso Cappato (personalmente, beninteso, penso di no), poi semmai nella sentenza segnalare vuoti e contraddizioni, spiegare perché sarebbe auspicabile un intervento del legislatore.
Questa (non) decisione allontana la Consulta dalla Costituzione e la avvicina alla politica. Una legge civile sul “fine vita” è forse più vicina oggi, ma a che prezzo? Al prezzo di vedere sempre più affievolirsi, nel silenzio generale, il principio della separazione dei poteri.