Le accuse di Trump e Pompeo (“enormous evidence”) e il rapporto dei Five Eyes tre siluri in pochi giorni. Ma che venga dimostrata o no la fuga di laboratorio, per Washington il regime cinese deve essere chiamato a rispondere del silenzio e della censura che ha permesso al coronavirus di diffondersi. È questo il punto essenziale delle rivendicazioni americane: la disinformazione, la volontà di mantenere il mondo all’oscuro di quel che stava realmente succedendo a Wuhan. Peggio di una negligenza, un proposito deliberato di occultamento
La Cina sta sperimentando sulla propria pelle le conseguenze della politicizzazione della pandemia che con tanto impeto aveva perseguito nelle settimane successive allo scoppio dell’emergenza. L’offensiva propagandistica, lanciata con l’obiettivo di accreditarsi come parte della soluzione e non del problema, sembrava aver ottenuto l’effetto desiderato: classi politiche sdraiate sulle posizioni di Pechino (Italia su tutti) e opinioni pubbliche che guardavano con manifesta ammirazione al modello cinese di gestione della crisi. Il governo del Partito Comunista (PCC) era così sicuro di sé da insinuare apertamente che l’origine del virus fosse da attribuire a oscure manovre americane. A un certo punto, però, il vento ha cominciato a cambiare. Mentre da Washington Trump tuonava contro le complicità dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) con il regime cinese, l’intelligence americana e il governo australiano cominciavano a lavorare sull’ipotesi di una fuga del nuovo coronavirus dal Wuhan Institute of Virology (WIV), che il Washington Post per primo aveva formulato dalle sue pagine. A quel punto anche in Europa si univano alla richiesta di un’inchiesta internazionale il presidente francese Emmanuel Macron, la cancelliera Angela Merkel e il Partito Conservatore di Boris Johnson (e per estensione l’esecutivo di Londra). La pressione su Pechino si intensificava con il passare dei giorni, fino a convergere in un affondo che – se supportato da dati di fatto concreti – potrebbe avere sviluppi decisivi sulle relazioni politiche ed economiche tra quel che resta dell’occidente a trazione atlantica e la Cina. In un’intervista televisiva all’emittente ABC News, domenica scorsa il segretario di Stato Mike Pompeo ha rilasciato una serie di dichiarazioni di grande rilevanza che impegnano gli Stati Uniti a proseguire sulla strada dell’accertamento della verità. Vale la pena citarle, perché in questi casi ogni parola ha il suo peso:
“Ci sono numerosi elementi di prova (“enormous evidence“, in inglese) che il Wuhan Institute of Virology sia all’origine della diffusione del virus. Lo abbiamo detto fin dall’inizio, che questo era un virus nato a Wuhan, Cina. Abbiamo sofferto molti attacchi per questo, da subito. Ma penso che adesso il mondo intero possa vederlo chiaramente. Ricordiamo che la Cina ha una storia di infezioni propagate per il mondo e di gestione dei laboratori al di sotto degli standard richiesti. Questa non è la prima volta che il mondo è stato esposto a un virus a causa di problemi in un laboratorio cinese“.
Nella stessa intervista Pompeo ribadiva che la risposta cinese all’emergenza era stata un “classico caso di disinformazione comunista” e che il governo di Pechino aveva fatto di tutto per mantenere all’oscuro la comunità internazionale (come mostrano anche le novità di cui parla Laura Harth nel suo articolo di oggi). Invitava quindi le autorità a dare prova di trasparenza permettendo un’indagine o rendendo pubbliche le informazioni sugli esperimenti condotti nel laboratorio sotto osservazione. Queste affermazioni vanno lette in correlazione con quelle rilasciate tre giorni prima da Trump in conferenza stampa: a un giornalista che gli chiedeva se avesse raggiunto “un alto grado di sicurezza” sul coinvolgimento del WIV nella diffusione del virus, il presidente americano rispondeva senza esitare “Yes, I have“. In contemporanea, il quotidiano australiano Daily Telegraph rendeva noto un rapporto dell’alleanza delle principali agenzie di intelligence anglosassoni (denominata Five Eyes) in cui si accusa senza mezzi termini il regime cinese di aver “deliberatamente” distrutto prove, messo a tacere chi denunciava i ritardi e gli insabbiamenti e rifiutato di consegnare campioni del virus alla comunità scientifica internazionale, in quello che viene qualificato come “un assalto alla trasparenza“. Tre bombe in pochi giorni. Con quali conseguenze?
Difficile che la richiesta di un’indagine possa avere seguito, in quanto avrebbe bisogno della collaborazione dell’indagato, prospettiva al momento inimmaginabile. Non solo la Cina non acconsentirebbe mai a un’umiliazione inaccettabile dal suo punto di vista ma, anche nel caso accedesse a qualche forma di controllo sulle sue strutture di ricerca, procederebbe previamente (come ha ha già fatto) a ripulire l’ambiente da indizi e testimoni scomodi. Difficile anche che le prove di cui Pompeo si dichiara in possesso possano essere realmente prodotte, a meno che scienziati cinesi abbiano accettato di collaborare con l’intelligence americana. Solo il tempo confermerà la fondatezza delle accuse ma, anche se ciò avvenisse, è probabile che i tempi della disclosure non siano così ravvicinati. A Washington conviene mantenere Pechino sulla corda. A mio avviso il succedersi di voci e dichiarazioni sui laboratori cinesi risponde, oltre che a una legittima esigenza di giustizia nei confronti dei responsabili del dramma collettivo che stiamo vivendo, a una strategia di guerra psicologica, di sfiancamento dell’avversario. Insomma, gli Stati Uniti (e i suoi alleati più stretti) hanno deciso di affrontare Xi Jinping sul suo stesso terreno. L’obiettivo è triplice: da un lato ricompattare il fronte occidentale già debilitato da spaccature volontarie e indotte dall’esterno; dall’altro erodere l’immagine della Cina come superpotenza affidabile e potenziale alternativa al consenso liberale; infine incidere sulle potenziali divisioni che da qualche tempo sembrano manifestarsi all’interno dell’apparato di potere della Repubblica Popolare.
Che la Cina, proprio in un momento di massima crisi del progetto europeo, faccia leva su iniziative commerciali con evidenti implicazioni geopolitiche per consolidare la sua penetrazione nel vecchio continente introduce negli equilibri transatlantici una variabile che Washington non può permettersi di sottovalutare. Il recupero della Gran Bretagna all’Anglosfera (in seguito alla Brexit) e una nuova consapevolezza del “pericolo cinese“, che sembra emergere ultimamente anche a Berlino e a Parigi, sono segnali incoraggianti per gli americani. Non a caso il lavoro di intelligence dietro le dichiarazioni di Pompeo è stato condotto in stretta collaborazione con i servizi alleati, e specialmente con i francesi che del laboratorio di Wuhan sanno qualcosa, essendone stati per lungo tempo i patrocinatori in joint-venture con il governo cinese. E qui si aprono altre porte in questo rebus di intrecci che si fa sempre più complicato: se la Francia ha collaborato direttamente a fare del WIV un centro di ricerca di massima sicurezza catalogato come BSL-4, gli Stati Uniti hanno finanziato almeno fino al 2014 esperimenti di potenziamento degli agenti patogeni (anche in Cina), per poi ritirarsi dal progetto dopo aver valutato il potenziale rischio che supponevano. Ma presso il CSIRO’s Australian Animal Health Laboratory sono ancora in corso programmi di scambio con l’Accademia delle Scienze di Pechino, che hanno come oggetto principale proprio la ricerca su coronavirus provenienti dai pipistrelli: sia Shi Zhengli, virologa cinese conosciuta come “bat-woman” per le sue spedizioni nelle grotte, sia Peng Zhou, attualmente leader del gruppo di ricerca sui coronavirus a Wuhan, negli anni scorsi erano stati mandati dal governo cinese a fare esperienza nel centro di ricerca australiano. Con ogni probabilità è proprio a partire da queste connessioni che si sta sviluppando la trama di intelligence in divenire.
Anche se a Pechino la parola d’ordine è respingere le accuse al mittente, la sedia di Xi Jinping scotta un po’ più del solito. Almeno le sicurezze con cui la Cina si è mossa negli ultimi tempi, forte del suo appeal da superpotenza emergente e del suo potere ricattatorio nei confronti degli stati vassalli, sono state scosse da una controffensiva che forse ha superato le attese. La posizione apertamente anti-americana promossa dal Ministero degli esteri non aveva riscosso consensi unanimi nelle stanze del potere comunista. C’è chi aveva persino ipotizzato che si trattasse della dimostrazione di una fronda interna al Partito volta a mettere in difficoltà lo stesso Xi Jinping, le cui relazioni con Trump erano state quasi sempre improntate a una certa cordialità diplomatica. Se le accuse di una fuoriuscita accidentale dal WIV fossero confermate, il colpo a livello di immagine sarebbe enorme e la prospettiva di una Chernobyl cinese prenderebbe corpo, con inevitabili ricadute interne di cui abbiamo già trattato su Atlantico.
Che venga dimostrata o no la fuga di laboratorio, lo stesso Pompeo ha sottolineato che il regime cinese deve essere chiamato a rispondere del silenzio e della censura che ha permesso al coronavirus di diffondersi. È questo il punto essenziale delle rivendicazioni americane: la disinformazione, la volontà di mantenere il mondo all’oscuro di quel che stava realmente succedendo a Wuhan. Peggio di una negligenza, un proposito deliberato di occultamento, una menzogna di Stato costata centinaia di migliaia di vittime al resto del mondo. Il magazine Epoch Times ha rivelato il contenuto di alcuni documenti interni dai quali emerge che le autorità centrali erano pienamente consapevoli della trasmissibilità del virus tra persone almeno una settimana prima della comunicazione ufficiale all’Oms, tanto da fornire istruzioni dettagliate alle commissioni sanitarie regionali sulle misure preventive da adottare. Inoltre la cronologia della propagazione del virus si arricchisce ogni giorno di nuovi dettagli: già il 6 dicembre la moglie di uno dei primi contagiati sotto osservazione a Wuhan risultò positiva al coronavirus, suggerendo la concreta possibilità di contagio interpersonale. Ma sia i funzionari cinesi che quelli dell’Oms negarono questa opzione finché non fu più possibile nasconderla, cioè un mese e mezzo dopo: “Le indagini preliminari condotte dalle autorità cinesi non hanno trovato alcuna prova della trasmissione da uomo a uomo del nuovo coronavirus (2019-nCov)“, si continuava a vendere al mondo una settimana prima del lockdown totale di Wuhan.
Intanto, un centro studi vicino al Ministero di pubblica sicurezza (China Institute of Contemporary International Relations – CICIR) avverte in un rapporto consegnato ai vertici del Partito che il sentimento globale contrario alla Cina è al livello più alto dalla repressione di Tiananmen. C’è da giurare che a Zhongnanhai stiano prendendo terribilmente sul serio questo cambio repentino di prospettiva: China lied, people died è un incubo per Pechino. A questo punto chi si domanda se è alle porte una nuova Guerra Fredda farebbe bene a rendersi conto che in realtà ci siamo già dentro.