Partiamo da una constatazione tanto banale quanto essenziale: non esiste una “nuova normalità”, a meno di non voler considerare “normale” la privazione delle libertà personali, l’isolamento sociale imposto, la castrazione delle libertà costituzionali tra cui la proprietà privata, l’attività di impresa oltre a quelle di pensiero e di informazione. Non esiste una nuova normalità, dunque, ma vorrebbero silenziosamente imporcela.
Nel marzo dello scorso anno, quando con la lacrima sul ciglio e la voce spenta ci fu inoculato il lockdown, tutti ci aspettavamo una soluzione rapida alla crisi sanitaria e, in tale prospettiva, abbiamo accettato una serie di limitazioni nella vita quotidiana, nei rapporti con amici e parenti, nonché nelle relazioni e nella gestione del rapporto di lavoro; in quel nuovo contesto, neppure immaginato dal migliore James Cameron, si è lentamente fatta strada la morbosa volontà di una parte politica di ideologizzare la pandemia e sfruttare quel “terreno dissodato per la Sinistra” (per citare il best seller del ministro Speranza) costruendo un nuovo modo di vivere.
Ecco che lo smart working e l’isolamento sociale sono divenuti il nuovo mantra. Bisogna lavorare distanti, non si devono avere rapporti sociali con nessuno, ed ogni momento di convivialità deve essere demonizzato, censurato, punito, messo alla gogna pubblica; il popolo che vive e che si riunisce, è stato trasformato nel capro espiatorio di qualsiasi colpa, e se il contagio da Covid sale o scende, state pur certi che troverete qualche saggio intellettuale liberal pronto a puntale il dito, perché la colpa sarà sempre dell’aperitivo, del pranzo al mare, della stretta di mano rigorosamente abolita come neppure nell’originale Achille Starace del Regime, quando veniva considerata una “mollezza per anglosassoni”.
Tanto è, ma da mesi la maggior parte dei dipendenti (pubblici e privati) vive di riunioni in internet, lavora da casa in pigiama, ed ha perso il contatto con la realtà quotidiana fatta anche di piccoli scambi di opinioni con i colleghi, di momenti di semplice comunità lavorativa che avvengono in un ufficio; tutto è stato congelato, ed il mondo – ovattato dalla pandemia – è completamente stordito, poiché appare chiaro che il fine ultimo è realizzare una società che sia sempre perfettamente igienizzata, misurata, calcolata, ove ogni gesto fuori dalle riga sia destinato al pubblico ludibrio.
Insomma, non ci siamo. Non c’è alcun motivo di stare allegri pensando di poter lavorare in ciabatte a casa, o sognando di poterlo fare magari da una spiaggia, per il semplice motivo che il lavoro a distanza è iper-connesso e iper-controllato, grazie anche all’impulso della tecnologia algoritmica e più genericamente del digitale, che sono entrati nella gestione dei rapporti di lavoro a piene mani: si verifica il tempo trascorso su una pratica, la durata della connessione, si rendiconta all’istante il rendimento del dipendente che, molto semplicemente, non smette mai di lavorare.
Altro che pc portatile e bermuda in riva al mare! L’immagine migliore è quella dell’Hikikomori giapponese, ovvero di chi resta chiuso in isolamento perenne dentro le quattro mura di casa, e la cui unica luce che vede è quella artificiale della propria scrivania. Un abbrutimento profondo, intimo, che penetra nella psicologia più recondita delle persone.
Di recente se ne è interessato anche il Washington Post richiamando la c.d. “pandemic cocoon” da noi conosciuta anche come “sindrome del canarino”. In sintesi, anche quando sarà finita la pandemia, e saranno rimosse le restrizioni, in molti subiranno l’effetto di non voler uscire dalla gabbia – questa volta invisibile – della propria sicurezza casalinga, della mascherina quale panacea per ogni problema e malattia, provando un profondo disagio per i ritrovati rapporti sociali: uscire fuori dal bozzolo, per così dire, potrà essere più complesso del previsto, perché la comunicazione unilaterale a cui siamo stati (sovra)esposti ci ha pervicacemente convinto che il mondo in cui si debba vivere sia a distanza di 2 metri dal proprio vicino, che sia un amico, un parente, o il coniuge poco conta.
La nuova normalità, dicevamo. Semplicemente non esiste. Riappropriamoci della nostra quotidianità, invece, fatta di strette di mano (e non di saluti col gomito), di incontri in ufficio (e non di webinar in slip), di parole scambiate ad un tavolo o al bancone di un bar (e non di pasti fugacemente consumati dentro casa, dopo un ordine online): torniamo ad appropriarci delle nostre libertà individuali e collettive, rivendicando la facoltà di pensare, di scegliere, di agire. Torniamo normali, per non regredire all’età della pietra. Torniamo uomini liberi.