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La nuova special relationship: Trump e Macron pronti a giocare al poliziotto cattivo e al poliziotto buono con l’Iran

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Per salvare l’Iran Deal, Macron va incontro a Trump: la sua proposta di un nuovo accordo ha spiazzato (e irritato) i partner europei e l’irrilevante Lady Pesc

Una “relazione molto speciale” quella che sono riusciti a stabilire il presidente americano Donald Trump e il presidente francese Emmanuel Macron, suggellata dalle visite nelle rispettive capitali. Trump al fianco di Macron alla parata militare del 14 luglio scorso sugli Champs-Elysées, e la sera prima a cena sulla Tour Eiffel. Per Macron, lunedì sera la cena a Mount Vernon, la dimora storica di George Washington, martedì la prima cena di stato dell’èra Trump alla Casa Bianca e mercoledì il discorso al Congresso. Partiti agli antipodi, i due si sono “riconosciuti” e incontrati. Trump l’outsider incolto e cafone, l’istrionico imprenditore immobiliare che ha spiazzato e spaventato le élites; Macron l’outsider colto e raffinato, il classico prodotto dell’École nationale d’administration, favorito dalle élites prima ancora di aprire bocca. Ma, appunto, entrambi outsider. Entrambi dei “maverick” del sistema politico tradizionale, “ci riconosciamo”, come ha fatto notare lo stesso Macron in un’intervista a Fox News.

Più che una profonda sintonia personale, ad avvicinarli sono le ambizioni e il pragmatismo. Il presidente francese è il solo per ora in Europa ad aver capito che, piaccia o meno Trump, l’inquilino della Casa Bianca, chiunque egli sia, è e resterà a lungo il leader del mondo occidentale. Da una parte, proprio l’incomunicabilità tra le due sponde dell’Atlantico, con gli altri leader della “vecchia Europa” che hanno scelto di tenersi a debita distanza da Trump (l’Europa “deve fare da sola”, ha sentenziato Angela Merkel), dall’altra la richiesta del nuovo presidente Usa di un maggiore coinvolgimento degli alleati, di un riequilibrio degli oneri, fin qui sopportati solo dai contribuenti americani, offrono un’occasione straordinaria alle ambizioni di grandeur di Macron.

Ai tempi di Bush jr era Blair il principale canale di comunicazione di Washington con l’Europa. Ai tempi di Obama è stata la Merkel. Oggi Parigi ha soppiantato sia Londra che Berlino. E sorprende in particolare che la pragmatica premier britannica Theresa May si sia fatta superare da Macron – proprio quando, nella tempesta dei negoziati per la Brexit, il Regno Unito avrebbe più bisogno del suo rapporto speciale con Washington – addirittura rinunciando alla visita di stato del presidente Trump pur di non affrontare le critiche degli oppositori.

Trump non chiede altro che alleati pronti ad assumersi maggiori responsabilità. Un invito a nozze per Macron. Dal Medio Oriente (Siria e Libano) all’Africa (Libia e Niger), la Francia aumenta la sua influenza e mette le mani sul volante della politica estera europea. Senza dimenticare che con l’uscita del Regno Unito dall’Ue si apre la partita della guida della nuova difesa europea: e chi, se non l’unica potenza nucleare rimasta nel club, con la benedizione di Washington? Pragmatismo.

“L’Iran divide Trump e Macron”, come scrive il Corriere della Sera? O forse proprio l’Iran, uno dei maggiori punti di dissidio tra l’amministrazione Trump e gli alleati europei, li unisce? E’ stato uno dei temi al centro dei colloqui e i due non hanno nascosto differenze sull’Iran Deal, l’accordo tra Teheran e i 5+1 sul programma nucleare iraniano (Jcpoa). Trump ha tenuto il punto, ribadendo di ritenerlo “folle, ridicolo, terribile”, “non avremmo mai dovuto firmarlo”, e lasciato intendere che preferisce uscirne, mentre Macron lo ha esortato a restare nell’accordo, suggerendogli di guardare ad una strategia più complessiva per contenere l’Iran.

Ma i due si sono venuti incontro. Il presidente francese riconoscendo ciò che chiunque dotato di un minimo di onestà intellettuale dovrebbe riconoscere, i molti limiti e difetti del Jcpoa, e dicendosi pronto a lavorare ad un nuovo accordo: “A prescindere dalla decisione che il presidente Trump prenderà, vorrei che lavorassimo ad un nuovo accordo”. Una evidente apertura alle richieste di Washington, contraddicendo quella che almeno ufficialmente è stata la linea europea: va tutto bene, il Jcpoa è il miglior accordo possibile, non si tocca – la linea Mogherini, insomma. Se Trump decidesse di restare nel Jcpoa, questo potrebbe servire da base di partenza per un nuovo, più esteso accordo che risponda alle sue principali preoccupazioni: il programma di missili balistici di Teheran e le attività destabilizzanti del regime in tutto il Medio Oriente, dalla Siria allo Yemen. Dunque, primo dei “quattro pilastri” della nuova piattaforma negoziale: preservare le restrizioni e le disposizioni chiave già fissate nel Jcpoa fino al 2025. Secondo pilastro: prolungare oltre il 2025 la sospensione del programma nucleare iraniano. Terzo: stop al programma missilistico. Quarto: freno alle ingerenze iraniane nella regione. Questo il messaggio lanciato da Macron a Trump, il quale probabilmente non si aspettava, né sperava, una tale mossa e ha risposto con apparente freddezza, mostrando un cauto interesse: “Nessuno sa cosa farò il 12 maggio. Vedremo… Vedremo se sarà possibile un nuovo accordo con solide basi”.

“Non c’è un piano B” rispetto al Jcpoa, aveva ricordato Macron domenica, poco prima di partire alla volta degli Stati Uniti, mentre si è presentato a Washington con quello che sembra addrittura un “piano A”, cogliendo quindi del tutto di sorpresa i partner europei, con i quali il presidente francese non aveva discusso della sua proposta prima di partire.

La sua speranza è di convincere il presidente americano a non ritirarsi dall’accordo tentandolo con la promessa di un negoziato futuro che non solo corregga i difetti del Jcpoa ma affronti anche il tema più generale di come contenere l’espansione iraniana nella regione. Di fatto, la proposta di Macron si muove sulla falsariga di quanto da settimane i negoziatori americani stanno discutendo con quelli europei.

Un azzardo che potrebbe valere il prezzo, se Trump decidesse di non ritirarsi dall’accordo il 12 maggio, ma non dipende solo da Parigi. Venerdì sarà ricevuta alla Casa Bianca la cancelliera tedesca Angela Merkel. Come risponderanno Gran Bretagna e Germania, di fatto scavalcate dalla fuga in avanti del presidente francese? Per salvaguardare la sua special relationship con Washington, Londra è costretta a rincorrere, mentre a Berlino frenano: un nuovo accordo non è all’ordine del giorno. La permanenza del Jcpoa viene ritenuta essenziale per qualsiasi ulteriore negoziato, ma Trump non dà garanzie. E d’altra parte, è comprensibile che non voglia impegnarsi, almeno finché non vedrà una chiara e sincera volontà a lavorare nella direzione di un nuovo accordo da parte di tutti e tre i Paesi europei.

Anche Trump è andato incontro a Macron, mostrandosi aperto all’ipotesi del più ampio accordo di cui ha parlato il presidente francese e accogliendo il suo suggerimento per la permanenza delle truppe Usa in Siria. In effetti, sembra quasi che Trump voglia ritirarsi dal Jcpoa ma allo stesso tempo sostenere il tentativo di un nuovo accordo con clausole più restrittive nei confronti degli iraniani. Non bisogna dimenticare che non vede l’ora di dare prova della sua abilità di grande “deal maker”. Questo fa supporre che il suo fine ultimo non sia semplicemente ritirarsi dal Jcpoa, ma dimostrare di aver saputo portare a casa un accordo migliore di quello di Obama, per esempio prolungando oltre il 2025 o rendendo permanente il blocco del programma nucleare iraniano, includendo lo stop a quello missilistico e le ispezioni dei siti militari iraniani. Inoltre, dimostrare a Kim Jong Un che i presidenti americani rispettano gli accordi, nell’imminenza dello storico incontro con il dittatore nordcoreano, è un argomento che potrebbe convincere Trump a rinviare il ritiro dal Jcpoa.

Il prossimo termine entro il quale la Casa Bianca è chiamata a fornire al Congresso le sue periodiche valutazioni sull’Iran Deal – se sia ancora nell’interesse degli Stati Uniti e se Teheran lo stia rispettando o meno – è il 12 maggio. Trump potrebbe dar seguito alla minaccia di ritirarsi dall’accordo, oppure decidere di concedere ulteriore tempo agli alleati europei per convincere Teheran a tornare al tavolo del negoziato – se questi avranno saputo manifestare in modo credibile l’intenzione di adoperarsi a sostegno delle richieste americane. Ma bisogna tenere presente che anche in caso di ritiro il 12 maggio, ciò non comporterebbe l’automatica reintroduzione delle sanzioni legate al programma nucleare. Spetta al Congresso infatti decidere il “se” e il “quando” reintrodurle, e il “quanto”. Dunque, la finestra diplomatica potrebbe restare aperta anche se Trump dovesse decidere di esercitare il massimo della pressione non rinnovando l’ok della Casa Bianca al Jcpoa il prossimo 12 maggio.

Ma Trump e Macron hanno saputo andare oltre le differenze sul Jcpoa e individuare comuni obiettivi di lungo termine – non permettere a Teheran di dotarsi di armi nucleari, evitando una proliferazione nella regione, e contenere l’espansione iraniana in Medio Oriente – e forse una comune strategia. Mentre il primo agita il “bastone”, interpreta il ruolo del “poliziotto cattivo”, il secondo interpreta quello del “poliziotto buono” e offre la “carota”, una via d’uscita diplomatica a Teheran e agli altri attori interessati a salvare l’Iran Deal e ad evitare il ritorno delle sanzioni economiche.

Il presidente americano ha confermato che vorrebbe far rientrare prima possibile i suoi soldati impegnati in Siria, ma non prima di aver lasciato “un’impronta duratura”: “Con Emmanuel abbiamo discusso il fatto che non vogliamo dare campo libero all’Iran verso il Mediterraneo”. “L’accordo con l’Iran è una questione importante – ha spiegato Macron – ma dobbiamo riferirci ad una visione più ampia, che riguarda la sicurezza dell’intera regione. Quello che vogliamo fare è contenere l’Iran e la sua presenza nella regione”.

L’asse Trump-Macron che si sta delineando sul dossier siro-iraniano appare così credibile da aver suscitato la reazione di Teheran e Mosca e spiazzato Bruxelles. Il presidente francese sembra essere l’unico al momento ad aver capito che l’unica speranza di salvare il Jcpoa è tentare di correggerne i difetti, perché senza Stati Uniti, anche se formalmente rimanesse in piedi, nessuno sarebbe in grado di trarne i benefici promessi e gli iraniani potrebbero decidere di riprendere lo sviluppo di armi atomiche. La Francia è insieme a Germania e Italia il paese che ha più da guadagnare dalla riapertura e crescita dei rapporti commerciali con l’Iran, un mercato di 80 milioni di persone e ricco di risorse naturali. Ma a differenza dei suoi colleghi tedeschi e italiani, Macron ha capito che se Washington straccia il Jcpoa e riapre la guerra a colpi di sanzioni, non ci sarà alcun “Eldorado iraniano” per le imprese europee. Troppo grande il rischio di finire nella rete delle sanzioni Usa. E d’altronde già oggi, a sanzioni revocate, a prevalere è l’incertezza e l’accordo non sta dando i suoi frutti. Tanto che si valuta se restarvi o meno anche a Teheran, proprio perché appare sempre più evidente che i Paesi europei non riuscirebbero a tutelarsi dalle sanzioni Usa e quindi a garantire da soli all’Iran tutti i benefici del Jcpoa.

Ma quante sono le possibilità che l’Iran accetti di sedersi al tavolo per una nuova intesa? Nulle, se Stati Uniti e partner europei non saranno compatti e se la pressione non risulterà credibile. Non bisogna però commettere l’errore di sopravvalutare la posizione di Teheran. Gli iraniani hanno sì messo le mani su ciò che resta della Siria, ma a costi altissimi. Le proteste per l’impoverimento e le ristrettezze economiche, che gran parte della popolazione comincia a collegare agli sforzi bellici a sostegno di Assad in Siria e degli Houthi nello Yemen, proseguono. E a Teheran è tangibile il timore che il ritorno delle sanzioni economiche possa esacerbarle ancor di più. Inoltre, nei confronti del regime di Assad, e indirettamente dell’Iran, gli Stati Uniti conservano una leva non trascurabile: grazie alle milizie curde, ai loro duemila soldati e all’aviazione, controllano le regioni a nord-est della Siria, ricche di risorse petrolifere. Senza di esse, gli iraniani dovranno continuare a sborsare miliardi di dollari per mantenere in vita Assad, a prescindere dai suoi successi militari contro le sacche di ribelli intorno alle principali città.

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