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La pericolosa illusione del Team Biden di umiliare Putin e spaventare la Cina col minimo sforzo

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La rappresaglia del Cremlino nella guerra economica con l’Occidente è arrivata – proprio alla vigilia del vertice Nato e del Consiglio europeo di oggi – e come prevedibile va a colpire il ventre molle, ossia la dipendenza dell’Europa continentale dal gas russo. La sensazione è quella di trovarci a combattere questa guerra economica con un braccio legato, se non entrambi.

L’ordine di Putin a Gazprom di farsi pagare il gas che esporta nei “Paesi ostili” (ovvero quelli che hanno adottato sanzioni contro Mosca) in rubli anziché in euro o dollari è una mossa difensiva, ma che ci ricorda i limiti di efficacia delle sanzioni economiche alla Russia e la loro ambivalenza. Con questa decisione in pratica Mosca obbligherebbe gli acquirenti europei di gas a fare ciò che l’Occidente ha impedito alla Banca centrale russa di fare: vendere valuta estera e comprare rubli per sostenere il valore della moneta russa, che infatti ieri è risalita cospicuamente sull’euro. Neutralizzando così almeno in parte la sanzione fine-di-mondo, il congelamento delle riserve estere di Mosca, che come abbiamo visto peraltro è ancora parziale, al momento si possono “scongelare” per il servizio del debito.

Uno scacco, perché sarebbero gli stessi Paesi Ue, acquistando gas, a stabilizzare il rublo e la situazione finanziaria russa, come d’altra parte già fanno ogni giorno garantendo un regolare flusso di entrate nelle casse del Cremlino.

La reazione europea è stata un misto di incredulità e nervosismo, come se non si aspettassero che in guerra – perché tale è, sebbene economica – oltre a tirare colpi, se ne possano anche ricevere. Obbligarci a pagare il gas in rubli? Una violazione dei contratti, se ne esce candidamente il vicecancelliere e ministro dell’economia tedesco Robert Habeck, mostrando di non aver compreso su quale terreno abbiamo deciso di rispondere all’aggressione russa dell’Ucraina. Non è esattamente un campione di affidabilità l’Occidente che sequestra riserve estere e conti corrente, anche individuali, su base extragiudiziaria. Così come la presidente Von der Leyen che bolla come “immorale” il blocco da parte russa dell’export di grano ucraino non sembra consapevole delle gravi conseguenze economiche su milioni di persone delle sanzioni occidentali. Altro che contratti e morale, si chiama guerra economica. Combattiamola, ma senza frignare.

A sentire poi il consigliere economico del premier Draghi, Francesco Giavazzi, sostenere che l’azzeramento dell’import di gas dalla Russia è una ipotesi da valutare perché “andiamo verso i mesi migliori dell’anno, aprile e maggio”, quando possiamo sopperire con l’idroelettrico (tra l’altro, questo inverno pochissima neve, ma Giavazzi era distratto), c’è davvero di che preoccuparsi: in che mani siamo? Ah, già, i Competenti bocconiani…

Lo stesso Giavazzi osserva che pagare il gas russo in rubli sarebbe “un modo per aggirare le sanzioni, quindi penso che continueremo a pagare in euro”. Vedremo cosa risponderanno i Paesi europei a Gazprom.

Il problema però è altrove, a Washington. Tra la situazione finanziaria russa che si stabilizza, il default non sembra imminente come qualcuno si illudeva, nonostante le pesanti sanzioni – comunque, ricordiamo, adottate solo da Occidente e Giappone; l’aumento dei prezzi energetici e in generale delle materie prime; lo stallo nei negoziati; e la cristallizzazione, nella migliore delle ipotesi, delle posizioni degli eserciti sui campi di battaglia, la guerra in Ucraina sembra destinata ad andare per le lunghe, probabilmente più di quanto gli stessi grandi attori (Russia, Usa e Cina) avessero preventivato.

Sul piano finanziario, il 25 maggio dovrebbero scadere le esenzioni concesse dagli Stati Uniti ai soggetti americani che devono ricevere dalla Russia interessi, dividendi o pagamenti in scadenza relativi al debito o all’equity. L’agenzia Moody’s ha reso noto che giudicherà come default il pagamento in rubli, annunciato da Mosca, delle obbligazioni denominate in valuta estera. Staremo a vedere.

Di difficilissima interpretazione la situazione sul campo. Siamo immersi in una vera e propria fog of war: da una parte l’esercito russo sarebbe praticamente fermo e avrebbe subito perdite pesantissime (addirittura 40 mila uomini tra morti, feriti e prigionieri secondo il Wall Street Journal e il 20 per cento dei mezzi), senza aver ad oggi conseguito alcun obiettivo (né la “liberazione” del Donbass né la caduta di Kiev), la controffensiva ucraina sarebbe particolarmente efficace nei dintorni di Kiev; dall’altra, le forze russe starebbero invece avanzando lentamente ma secondo i piani, sarebbero sul punto di conquistare Mariupol e di chiudere una sacca ad est.

Se Putin sembra aver sottostimato sia la resistenza ucraina, politica e militare, sia la reazione Ue e Nato, e aver invece sovrastimato la preparazione del suo esercito, la Casa Bianca, pur avendo saputo anticipare per filo e per segno le intenzioni del Cremlino, sembra anch’essa aver sovrastimato la forza russa e sottovalutato le capacità di resistenza ucraine.

Ma questo apre scenari forse ancora più problematici per Washington, su più fronti. Stiamo entrando in un territorio inesplorato, dove qualsiasi analogia storica rischia di rivelarsi fuorviante.

Per questo giorni fa lo storico Niall Ferguson metteva in guardia dai pericoli di una strategia volta a prolungare il conflitto: “Biden sta commettendo un errore colossale se pensa di poter dissanguare la Russia, rovesciare Putin e avvertire la Cina di tenere le mani lontane da Taiwan”, scriveva su Bloomberg.

Il paragone con il passato che sembra andare per la maggiore alla Casa Bianca è quello con l’Afghanistan. Sul New York Times, sabato scorso, David Sanger ha suggerito che l’amministrazione Biden “cerca di aiutare l’Ucraina a bloccare la Russia in un pantano senza provocare un conflitto più ampio con un avversario dotato di armi nucleari o escludere potenziali percorsi di de-escalation“. Da qui, Ferguson conclude che Washington intende continuare ad aiutare gli ucraini anche se perdono la guerra convenzionale, trasformando l’Ucraina in un Afghanistan per i russi. Con l’obiettivo, trapelato da un alto funzionario Usa, la fine del regime di Putin, dissuadendo così Pechino da un azzardo simile su Taiwan.

Una combinazione di “cinismo e ottimismo”, “l’archetipo della realpolitik“, la definisce Ferguson: “sedersi e guardare gli eroici ucraini ‘dissanguare la Russia’; pensare al conflitto come a una mera sotto-trama della Seconda Guerra Fredda, in cui la Cina è il nostro vero avversario”. Molti osservatori in Occidente attribuiscono un’alta probabilità a questo scenario, osserva. Forse troppo.

“L’amministrazione Biden non solo pensa di fare abbastanza per sostenere lo sforzo bellico ucraino, ma non tanto da spingere Putin all’escalation. Pensa anche che stia facendo abbastanza per soddisfare l’opinione pubblica, che si è fortemente mobilitata per l’Ucraina, ma non così tanto da sacrificare vite americane”. Insomma, il minimo sforzo senza rischiare nulla.

Ma Ferguson è molto meno ottimista, perché ritiene “gravemente sbagliato” il presupposto che la prosecuzione della guerra “minerà necessariamente la posizione di Putin e che la sua umiliazione a sua volta servirà da deterrente alla Cina”. “Scommettere su una rivoluzione russa è scommettere su un evento estremamente raro – ricorda – anche se la guerra continuasse ad andare male per Putin”. Se la guerra andrà a suo favore, avrà comunque qualcosa da presentare plausibilmente ai russi come una vittoria e quindi non ci sarà alcun colpo di stato.

Come abbiamo visto, sul campo la situazione è incerta. Non c’è dubbio che il tentativo di Blitzkrieg – la rapida caduta di Kiev e di altre città principali per provocare il regime change e instaurare un governo fantoccio – sia fallito, che le forze russe abbiano subito pesanti perdite e la loro logistica sia in crisi, ma l’avanzata, sebbene limitata, prosegue a sud e a est e gli ucraini non sembrano nelle condizioni di ricacciare i russi oltre i confini. Dal Blitzkrieg siamo passati ad una guerra di trincea e di lungo assedio delle città.

Nonostante le difficoltà russe, secondo Ferguson gli occidentali sottovalutano quanto possa mettersi male per l’Ucraina nelle prossime settimane ed è scettico che le sanzioni attuali possano costringere Putin a fermarsi o addirittura farlo cadere (l’Ue versa ancora circa un miliardo al giorno a Mosca per gas e petrolio). Certo potrebbero volerci mesi, certo a Putin non basterebbero la rinuncia alla Nato, la Crimea e il Donbass (che ha già), ma se riuscisse a conquistare tutte le coste sul Mar Nero (Odessa) e creare una continuità territoriale con il Donbass, avrebbe la vittoria in pugno. Non è ancora chiaro per chi giochi il fattore tempo, ma potrebbe giocare per la Russia.

A proposito di analogie storiche, Ferguson la vede così:

“La Seconda Guerra Fredda è come una strana immagine speculare della prima. Nella prima Guerra Fredda, senior partner era la Russia, junior partner la Cina – ora i ruoli sono invertiti. Nella prima Guerra Fredda, la prima guerra calda è stata in Asia (Corea), ora è in Europa (Ucraina). La Corea è stata solo il primo di molti scontri con proxies dei sovietici: oggi la crisi in Ucraina sarà probabilmente seguita da crisi in Medio Oriente (Iran) ed Estremo Oriente (Taiwan)”.

Ma c’è una differenza sostanziale, avverte lo storico. Nella prima Guerra Fredda, l’amministrazione Truman è stata in grado di guidare una coalizione internazionale con un mandato delle Nazioni Unite per difendere la Corea del Sud; ora l’Ucraina deve accontentarsi di forniture di armi. E il motivo è il timore di una guerra nucleare se il sostegno Usa si spinge troppo oltre.

L’Ucraina, conclude Ferguson, non è l’Afghanistan degli anni ’80. La guerra non durerà anni ma settimane. “Permettere a Putin di ridurre l’Ucraina in macerie non è intelligente; gli offre la possibilità di raggiungere il suo obiettivo di rendere impraticabile l’indipendenza ucraina. Come la maggior parte dei leader russi nella storia, molto probabilmente morirà per cause naturali”. Nel frattempo, “la Cina osserva tutto questo con un crescente senso di certezza di non essere alle prese con gli Stati Uniti di Truman e Kennan. Perché quell’America – che ha condotto con tanta sicurezza la fase di apertura della prima Guerra Fredda – è essa stessa ormai storia”.

Ci permettiamo di aggiungere che in gioco non c’è solo Kiev per gli Stati Uniti, ma ben più importanti Berlino e l’Europa, come abbiamo già spiegato su Atlantico Quotidiano. Tenuto finora compatto il fronte Ue e Nato, nient’affatto scontato, e ottenuto un riallineamento tedesco rispetto alla pericolosa Ostpolitik merkeliana, che stava riuscendo a saldare gli interessi di Mosca e Berlino, il rischio è di mettere in pericolo questi risultati. La dipendenza europea dal gas russo è ancora intatta e molti e onerosi passi devono essere mossi prima di azzerarla. Oggi Biden arriva a Bruxelles con una proposta, “un’azione congiunta”, per ridurla. Vedremo. Ma la tentazione di molti governi europei, di fronte all’aggravarsi e al prolungarsi della sofferenza delle loro economie, pressati dalle opinioni pubbliche, sarà quella di cercare una via d’uscita dalla guerra.

Ecco perché accontentarsi cinicamente del logoramento russo fornendo stinger e javelin agli ucraini, come fossero i mujaheddin afghani, potrebbe non essere sufficiente a garantire gli interessi Usa e a cogliere l’occasione per una dimostrazione di forza dell’Occidente contro l’asse delle autocrazie capeggiate da Pechino.

L’amministrazione Biden continua a proiettare incertezza dopo gli errori commessi nel corso del 2021: prima il via libera di fatto al completamento del Nord Stream 2, rinunciando alle sanzioni; poi, a inizio dicembre, davanti alla minaccia credibile di invasione messa in piedi da Putin nei mesi precedenti, l’aver escluso un intervento diretto Usa a difesa dell’Ucraina. Due segnali interpretati al Cremlino come luce verde per le sue mire. In quel momento, sembrava che il team Biden si fosse deciso a “sacrificare” Kiev nella cornice di una nuova Yalta, aprendo a negoziati diretti con Mosca e partner Nato sulla sicurezza in Europa orientale, proprio mentre Putin chiedeva “garanzie giuridicamente vincolanti” sulla fine dell’espansione Nato ad est.

Poi, tra gennaio e febbraio, l’improvviso risveglio. Ma anche il terzo errore. L’intelligence Usa è stata perfetta nel prevedere che Putin avrebbe invaso, contro l’opinione di numerosi analisti e osservatori, ma aver sovrastimato la forza russa può aver indotto l’amministrazione Biden a ritenere che un aiuto militare più imponente non avrebbe fatto la differenza. Intelligence accurata, sanzioni e aiuti militari limitati potevano sembrare sufficienti in quella prima fase. Ma se la guerra si protrae, vedere l’Ucraina rasa al suolo sotto i suoi occhi diventa umiliante per Washington.

L’amministrazione Biden è rimasta nel limbo che già nel dicembre scorso preoccupava Walter Russell Mead: “Biden deve prendere una decisione chiara. Se si impegna ad aiutare l’Ucraina a integrarsi con l’Occidente, dovrà convincere Putin che fa sul serio”, schierando “significative forze Nato nel Paese”. Viceversa, “se non pensa che l’Ucraina valga il rischio di una crisi in stile Guerra Fredda con la Russia, deve cercare la ritirata più dignitosa che Putin permetterà”.

Il team Biden invece è rimasto a metà strada. Non ha usato lo strumento della deterrenza e tuttora sembra subire la deterrenza russa anziché ristabilire quella Usa. Ha rinunciato a fissare linee rosse chiare, per esempio sull’uso di armi chimiche o sull’intervento bielorusso al fianco di Mosca, e ad istituire no-fly zone anche parziali. Ha lasciato intendere a Putin di essere disposto a sacrificare l’Ucraina, ma è stato “sorpreso” dalle difficoltà russe e dalla resistenza di Kiev, e ora pensa di uscirne col minimo sforzo, sperando nel pantano. Troppo poco, temiamo.

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