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La pericolosa utopia della “scienza perfetta”: l’idea stessa di una “teoria finale” è compatibile con il metodo scientifico?

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Da molto tempo si discute, in ambito scientifico ed epistemologico, circa la possibilità di giungere a una “teoria finale” – o “teoria del tutto” – che ci consentirebbe finalmente di conoscere la realtà in maniera completa ed esaustiva. Scordando in modo forse troppo sbrigativo il problema dei nostri limiti cognitivi, fisici come Steven Weinberg e filosofi quali Wilfrid Sellars hanno sostenuto con convinzione che ci stiamo progressivamente avvicinando a tale obiettivo. Una volta conseguito, esso ci consentirebbe una volta per tutte di abbandonare la cornice falsa e deviante del senso comune e di adottare al contempo uno schema concettuale nuovo, quello che in molti suoi lavori Sellars definì “immagine scientifica del mondo”.

Le obiezioni sono tante e per nulla scontate. Parlare di una “immagine scientifica” al singolare pare assai arduo, dal momento che neppure gli scienziati concordano su quale dovrebbe essere. A monte del ragionamento troviamo l’illusione, coltivata dal neopositivismo logico all’apice del suo splendore, di poter dar vita una “scienza unificata” basata sul modello della fisica al quale dovrebbero adeguarsi non solo le altre discipline naturali, ma anche – e soprattutto – le scienze umane e storico-sociali, che sarebbero arretrate proprio per il fatto di non adottare il metodo che ha consentito alla fisica di conseguire gli spettacolari successi che tutti conosciamo.

Naturalmente un simile approccio non tiene conto della lezione di Max Weber, il quale aveva parlato di differenze ontologiche fondamentali tra il mondo naturale da un lato e quello umano e storico-sociale dall’altro. Differenze tali da non consentire l’adozione di un unico metodo di spiegazione nei due ambiti. La replica di solito consiste nel notare che anche il mondo umano fa parte di quello naturale. La teoria finale di cui sopra, quando l’avremo ottenuta, ci consentirebbe di liberarci, per esempio, dell’inutile nozione di “mente” e di capire che a parole per noi fondamentali quali “intenzione”, “desiderio”, “emozione”, “affetto” etc. non corrisponde alcunché di effettivamente reale. Si tratterebbe solo di stati del tutto spiegabili in termini puramente fisici.

Tuttavia, ciò che mi preme notare in questo contesto è un fatto di solito trascurato. I sostenitori dell’assoluta prevalenza dell’immagine scientifica su quella del senso comune, e quindi della necessità di sostituire in toto la seconda con la prima, basano i loro ragionamenti anche su considerazioni che appartengono più al novero della filosofia politica e sociale che a quello della filosofia della scienza.

Gli esempi sono molti, ma qui mi limito a citare un celebre dibattito tra Wilfrid Sellars e Paul Feyerabend, avvenuto all’incirca alla metà del secolo scorso, e poi ripreso in seguito da altri. Sellars, realista scientifico, pensava che il dominio dei costituenti di base della realtà sia formato dagli elementi che la scienza troverà necessario postulare “a lungo termine”. L’immagine scientifica senz’altro prevarrà ma, per procedere a sostituire il senso comune abbiamo bisogno di tempo, giacché si tratta dell’immagine in cui gli esseri umani hanno incontrato se stessi, e la sua sostituzione implica che a processo concluso diventeremo qualcosa di completamente diverso.

Paul Feyerabend, padre dell’anarchismo metodologico, non era d’accordo con una simile tesi che giudicava inutilmente complicata, e sostenne invece che, posto che vi siano le basi per farlo, la cornice di riferimento concettuale (e osservativa) del senso comune dovrebbe essere sostituita immediatamente da una cornice teorica più adeguata. A suo avviso, infatti, se il tentativo di rimpiazzare il senso comune mediante l’immagine scientifica ha successo, allora gli esseri umani riusciranno a liberarsi dai pregiudizi che impediscono loro di vedere il mondo come è e di cogliere i dettagli della sua struttura. Non solo. Riusciremo anche a liberarci dai pregiudizi che ci spingono a differenziarci dagli altri sotto il profilo etico, politico, religioso, etc.

Ecco, dunque, che pure nella filosofia della scienza troviamo all’opera una sorta di utopia non intesa – in senso popperiano – come ideale regolativo, bensì quale obiettivo davvero raggiungibile. In questo caso non è l’idea di “società perfetta” a fungere da battistrada, ma quella di “scienza perfetta”, giunta allo stadio di perfezione proprio grazie alla summenzionata “teoria finale”. Non credo che il ragionamento suonasse plausibile a un pensatore ironico e disincantato quale Feyerabend era. E tuttavia lo formulò in modo preciso, lasciandoci capire mediante un paradosso quale sia il peso dell’utopia anche in ambito scientifico. Concludo notando che pure in questo caso l’idea di perfezione, oltre a non tenere conto dei nostri limiti, è foriera di guai enormi. Quale mai potrebbe essere, infatti, lo scopo della nostra vita in un mondo conoscibile in modo completo una volta per tutte? E come potremmo vivere senza la speranza di apprendere sempre qualcosa di nuovo? Per citare ancora una volta Popper, ne uscirebbe una “società di formiche”, e non di esseri umani. Per fortuna l’epistemologo austriaco sottolineava anche che la storia della scienza è un grande cimitero di teorie, con ciò relegando la “teoria finale” nel regno dei sogni velleitari.

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