I vocabolari etimologici concordano nell’attribuire la provenienza del termine “simbolo” dal latino “symbolum”, a sua volta discendente dal termine greco “σύμβολον”. Non sussiste dubbio alcuno sul significato di questa parola: l’egida grafica che raggruppa più persone che manifestano gli stessi ideali, oltre ad essere lo stesso simbolo un riferimento per altre persone che si vogliano attrarre verso quella realtà sociale o movimento di pensiero che sia. Le prime tracce di simboli usati per indicare con efficacia qualche attività umana li troviamo nei graffiti rupestri preistorici (tra i quali quelli, splendidi, della nostra Valcamonica) e, via via, lungo tutto il percorso dell’evoluzione umana fino ad oggi. Un simbolo è dunque un’immagine retorica che riassume un complesso di attività, pensieri, scopi sociali ed aspirazioni future delle persone che lo scelgano a costituire il primo elemento aggregativo e distintivo della loro unione. È, infatti, impensabile ed illogico che un simbolo non abbia finalità di aggregare e unire più persone, come non sarebbe utile che tale rappresentazione grafica possa proporsi di dispiacere a qualcuno senza proporre alcunché di diverso. Non a caso si definisce “arte rupestre” quella dei simboli preistorici, una vera e propria arte caratterizzata e formata da elementi decorativi condivisi e caratterizzanti ogni epoca artistica, che spesso, proprio grazie ai simboli utilizzati dagli artisti di quel tempo si può definire a sé stante, come possiamo riscontrare nelle decorazioni tipiche del barocco o del minimalismo moderno.
Ma un simbolo non è soltanto l’espressione di un gusto artistico avvertito negli anni in cui si diffonde come elemento decorativo piacevole alla vista, recando in sé ben altre funzioni di collante ideologico e indicazione sociale distintiva, persino difficilmente collocabile a monte oppure a valle della prima idea che il simbolo voglia rappresentare. Per quanto possa apparire inconsueto, non sono pochi i casi in cui il simbolo è stato creato in un momento successivo a quello della prima aggregazione di persone di eguali vedute, e quindi a valle del pensiero condiviso, mentre nella maggior parte dei casi storici proprio attraverso un ben determinato simbolo, rappresentativo di un’idea, è collocabile a monte della prima formazione di un vero e proprio movimento sociale, artistico, religioso, corporativo che sia. Nei partiti politici, in particolare, il simbolo viene scelto, da sempre, dai suoi fondatori con evidente scopo aggregativo e distintivo rispetto ad altre formazioni sociali e politiche. Ancor prima dello statuto che regoli la vita interna del movimento politico, viene scelto un simbolo, spesso frutto di laboriose ricerche o, come s’usa fare oggi, addirittura di una sorta di preventiva consultazione popolare tra le persone interessate a quel progetto.
Senza simboli non esistono movimenti e partiti, dunque. Tale considerazione è importante se si voglia davvero capire cosa o chi stia dietro a certi exploit nel panorama politico. Basti pensare alla falce e martello, che parrebbero essere stati scelti da Lenin in persona, dove l’unione tra braccianti ed operai delle fabbriche contro il padronato era il messaggio forte che il comunismo volle indicare come vera missione nei primi anni del secolo scorso, per trovare nel simbolo ben più che una mera indicazione distintiva, ma un vero e proprio programma sociale da perseguire con l’adesione a quel partito. Non meno importante fu il significato rappresentativo nei simboli della fiamma tricolore per la destra storica, l’edera per i repubblicani, il sole nascente per i socialisti, la rosa nel pugno per i radicali, fino a giungere ai più recenti contenenti la quercia, l’ulivo, e persino le cinque stelle odierne. Come nella materia dei marchi e brevetti, comunque, esistono simboli forti e simboli deboli, per cui la scelta avveduta di quel simbolo o di un altro possono rivelarsi più o meno efficaci in termini di consenso e di precisa caratterizzazione delle idee a cui fanno riferimento. Se falce e martello, ancorché sia praticamente scomparso nel mondo il comunismo reale, rimarranno simboli forti e destinati a rappresentare ancora molte persone, non altrettanto si può dire di simboli più generici, come le iniziali di un nome e cognome ( e non tutti sono Napoleone, cui ancora sopravvive la lettera N maiuscola) oppure un’indicazione del tutto generica, come “cinque stelle”, oltretutto non disposte nello schema di alcuna costellazione nota (per cui i loro seguaci vengono perlopiù indicati da tutti come “grillini” invece che “pentastellati”) o il semplice nome con fotografia di un leader politico, che, oltre ad invecchiare e richiederne la sostituzione, difficilmente sopravviverebbero alle possibili sfortune politiche dello stesso.
Non a caso, il primo nocciolo storico dei leghisti, che videro con gioia un forte segno identitario nel simbolo del sole delle Alpi e nell’effigie di Alberto da Giussano sembrano ancora preferire quei simboli primigeni rispetto al nome di Salvini, forse troppo legato alla sua persona ed in misura minore ai primi ideali dei suoi storici sostenitori. Altrettanto poco appeal sembra aver avuto, sull’altra sponda, l’eccessiva mutevolezza del simbolo del Partito democratico, con un piccolo ramoscello d’ulivo in basso e sempre meno rilevante rispetto a nome e faccia del candidato (che magari sceglie di nemmeno utilizzare il simbolo in campagna elettorale) come accade oggi. Nel simbolo del Pd è presente tutt’ora il ramoscello di quell’Ulivo che moltissimi suoi lettori non apprezzarono affatto come esperienza politica ai tempi di Romano Prodi, che ne fu ideatore. Altra dimostrazione che il simbolo conta assai più di quanto si ritenga. Facendo un salto all’indietro nei secoli, non appare trascurabile o casuale la scelta della croce come primo, essenziale ed imprescindibile simbolo della religione cristiana. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, la celeberrima frase apparsa all’imperatore Costantino sotto alla croce fiammeggiante – “in hoc signo vinces” – non trae origine dalle Scritture ma dagli storici, primo fra tutti Eusebio (Vita Constantini I, 27,31 e Hist. eccl. IX, 9) e per fini dichiaratamente militari più che ideologici, ossia durante l’invasione di Roma, difesa da Massenzio, da parte dei Galli. Il simbolo della croce ebbe poi nell’epoca delle crociate il massimo significato intrinseco e proprio la grande croce rossa venne dipinta sulle divise e sugli scudi dei crociati, come sappiamo, ad indicare la loro missione di difendere Gerusalemme dai musulmani, che, non a caso, ancora oggi ci definiscono spregiativamente “crociati”.
Non ci addentreremo nello spinoso campo delle ragioni di quella o dell’altra parte religiosa, limitandoci a constatare quanto potere abbia un simbolo e per quanti secoli possa sopravvivere ai suoi primi utilizzatori. Perché di un simbolo non si può fare a meno, comunque la si pensi e qualunque sia il simbolo scelto. Per un appassionato di storia e di ricerca sociale, assistere al dibattito odierno sulle “sardine” o sull’incongruità del candidato del Pd che non espone in piena campagna elettorale il simbolo dello stesso, pur rimanendo nominato da quel partito, non è cosa da poco o casuale. Esibire o meno il simbolo del partito del quale si è un esponente di punta non è una svista né una questione marginale. Chi lo fa, sa bene che gli elettori danno grande importanza ai simboli ed istintivamente tracciano la fatidica croce (nota bene: il simbolo della croce e non uno scarabocchio a caso) sui simboli che, a loro avviso, meglio rappresentano gli ideali di coloro che vorrebbero a governarli.
Ma, allora, anche il simbolo della modesta sardina, venne scelto con oculata speculazione sociologica e fu il frutto di un elaborato studio promozionale? Penso di no. Il c.d. movimento delle sardine, pare venne definito così da qualche giornalista perché la piazza ove si tenne il loro primo raduno era troppo piccola rispetto al loro numero e, quindi stavano “stretti come le sardine”. Nessun riferimento al simbolismo araldico o evangelico del pesce, nessun riconoscimento collettivo in ciò che una sardina possa significare, anche perché è arduo trovarne uno. Quello fu un simbolo nato del tutto per caso, come lo stesso movimento, peraltro, e che a qualcuno fa un gran comodo che s’accontenti di essere sardina, permettendogli di esporre o ritirare gli emblemi di partito caso per caso, associandosi o dissociandosi alla bisogna dalle povere sardine di piazza. Le stesse sardine dovranno, stiamone certi, abbandonare presto tanta genericità per adottare un emblema che possa meglio rappresentarli, qualora ci sia davvero qualcosa che, oltre ad avercela a morte con Salvini e la Meloni, davvero li unisca. Se non si formerà l’indispensabile parte propositiva e concreta che, piaccia o no, deve stare alla base di un movimento e/o di un partito, sarà soltanto una parentesi di colore. Sorge infatti il dubbio che anche un fiasco rotto, invece della sardina, sarebbe andato bene comunque a chi grida (contro l’opposizione) nelle piazze, ed altrettanto bene sarebbe andato a chi, sostenendole, fa come nella celeberrima barzelletta: “Vai avanti tu che a me scappa da ridere”.