Da almeno due anni viviamo in un mondo in preda al caos. La pandemia ha portato con sé un enorme carico di morti ed insieme altri e sempre nuovi problemi. Soprattutto in Occidente, a volte si ha l’impressione che una tragedia dopo l’altra si abbatta su di noi; sembra che non vada bene nulla. Ogni fragile certezza si sgretola di fronte ai quotidiani sconvolgimenti. L’economia è flagellata da vecchi e nuovi mali che tornano. Le nazioni si trovano ad essere sempre più deboli e sempre più sole. In molti si sentono smarriti e atterriti. Ecco, penso che di fronte a una tale situazione nulla possa fare più male di una ignobile e sadica risata alle nostre spalle. Specialmente se questa risata giunge proprio da chi detiene una larghissima quota di maggioranza in questo capitale di mali che affliggono ultimamente il pianeta.
E invece è proprio quello che da quasi due anni sta avvenendo. L’ultimo episodio risale a poche settimane fa. Si tratta di un tweet, datato 3 dicembre 2021, della signora Hua Chunying, portavoce e direttore generale del Dipartimento informazione del Ministero degli Affari esteri della Repubblica Popolare Cinese. Tweet che recava il seguente testo:
“#China’s model of #democracy fits in well with its national conditions. It enjoys the support of the people. It is real, effective, and succesfull democracy. China is indeed a true democratic country.”
(Traduzione italiana: “Il modello di democrazia cinese si adatta bene alle sue condizioni nazionali, gode del sostegno del popolo, ed è una democrazia reale, efficace e di successo. La Cina è davvero un Paese democratico.”)
Ancora più beffarda la chiusura, con gli ebeti, cerulei e sadici hashtag “#whatisdemocracy #whodefinesdemocracy”.
Per rispondere alla signora Hua si potrebbe partire da qualche insignificante dato oggettivo. Ad esempio, il fatto che nella Repubblica Popolare non si svolgano elezioni (non “libere elezioni”, attenzione, ma elezioni punto e basta) da ben 68 anni, ossia da quel glorioso 1949 in cui i comunisti di Mao presero il potere e indirizzarono il Paese sulla strada del sol dell’avvenire. Oppure le si potrebbe ricordare come una democrazia moderna non sia monopartitica. O che, per esempio, il capo dello Stato o del governo non abbiano un mandato vitalizio, o che le minoranze etniche o religiose non vengano solitamente rinchiuse nei lager, o che non sia “democratico” tacere di fronte al mondo sulla diffusione di un virus letale, eccetera eccetera. Ma purtroppo armi del genere potrebbero avere un impatto totalmente risibile nei confronti di chi è conscio di mentire e mistificare.
E la signora Hua è una vera esperta in quest’arte. Scorrendo sul suo profilo Twitter – social che ella usa con significativa abitudine e che è invece interdetto ai comuni cittadini cinesi – si nota con quanta acribia si profonda nella diffusione di post che mettono in luce le criticità e le malattie dell’Occidente, e in modo particolare della democrazia americana. Lo fa attingendo a fonti giornalistiche – perlopiù di area liberal-progressista – come il Guardian, Bbc, Abc News, National Public Radio. Testate che in una società democratica dovrebbero cercare di rendere trasparenti al pubblico le manovre di chi è chiamato a governarlo, ma che in questo caso vengono sfruttate ad uso e consumo di una autocrazia per seminare un sentimento di profondo scoramento, rassegnazione e delusione tra i cittadini dell’Occidente allargato, proprio nei giorni nei quali alla corte di Joe Biden i leader dello stesso Occidente allargato si ritrovano in un giusto, nobile ma forse scarsamente efficace consesso a parlare di loro stessi e dello stato delle democrazie nel mondo. A questo meeting telematico ospitato dal presidente Biden nei giorni 9 e 10 dicembre, il cosiddetto Summit for Democracy, la Cina rappresentava di fatto il grande non-invitato, assieme alla Russia, la Turchia, l’Iran, l’Arabia Saudita e (per motivazioni alquanto deboli) l’Ungheria di Viktor Orbán (curiosa invece la decisione di ammettere tra i convitati il Pakistan amico dei Talebani e prima potenza nucleare in Medio Oriente, peraltro non aderente al Tnp).
Emblematiche, in questo incontro sbandierato dal presidente americano come un capolavoro di multilateralismo, sono state le parole del ministro taiwanese Audrey Tang, che rispondendo alle lamentele di chi non è stato invitato ha suggerito a queste nazioni di “raddoppiare gli sforzi per democratizzarsi”, in modo da potersi “ritrovare assieme al prossimo meeting”. Sforzo che da un Paese come la Repubblica Popolare, che ha aderito (o meglio, è stata fatta entrare estromettendo di forza proprio Taiwan) all’Onu nel 1971, sposandone mandato e valori (solo sulla carta, dato che proprio in quegli anni si dilettava nel supportare con ogni risorsa gli Khmer Rossi in Cambogia), tutto il mondo si sarebbe aspettato da tempo, specialmente a seguito delle riforme economiche sotto il regno di Deng Xiaoping e all’ingresso, a Doha nel 2001, nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) dopo ben quindici anni di negoziati. Ci si aspettava, e per anni ci si è aspettato, che a seguito di un ingresso di Pechino nel club del mondo libero, quelli di Piazza Tienanmen, della Grande carestia del 1960, o dell’invasione del Tibet, sarebbero rimasti solo come dei brutti ricordi. E invece non è stato così.
Un cambio di rotta significativo è avvenuto soprattutto con l’ascesa al potere, nel 2012, di un despota come Xi Jinping, che con grande ragione il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, nel mandarne alle stampe una biografia, ha efficacemente definito “il nuovo Mao”. La sua politica è chiara: fare della Cina la potenza egemone globale, comprandone pezzo per pezzo ogni asset strategico con le Vie della Seta, individuate nel 2017 con una riforma dello stesso statuto del Pcc come il mezzo privilegiato per cambiare le sorti del mondo, imporre il dominio di Pechino, ribaltare il quadro delle alleanze e far soccombere l’Occidente (non è un caso, tra l’altro, che la Nuova Via della Seta sia uno strumento di pertinenza del Ministero per la sicurezza nazionale, e non di quello del commercio estero). E già dal 2015 in poi, con ben quattro revisioni legislative, “il nuovo Mao” – che, lo ricordiamo, ha anche cambiato la Costituzione per restare presidente a vita – ha imposto l’obbligo (non la facoltà, l’obbligo!) a qualsiasi cittadino e azienda cinese di rispondere ai Servizi di sicurezza e militari, e di fornire loro informazioni e assistenza. Non proprio una manovra democratica.
A questo si accompagnano potenti e spregiudicati attacchi cyber e soprattutto una massiccia opera di infiltrazione e di influenza cinese in Occidente: nel mondo accademico, tra i parlamentari (si rimanda al rapporto di qualche mese fa di Sinopsis e del Global Committee for the Rule of Law “Marco Pannella”, ripreso nei contenuti in un articolo a firma di Marco Respinti e Andrea Morigi uscito su Libero il 20 novembre 2021) e nei settori strategici dell’economia e dell’industria. Va riconosciuto al presidente del Consiglio Draghi il merito di aver saputo finora utilizzare con efficacia lo strumento del golden power, come è avvenuto per la vicenda delle sementi e dei semiconduttori, e come speriamo avvenga per quella – per citarne solo una – del porto di Palermo.
E allora, di fronte a un nemico tanto grande e quanto potente, ben venga il multilateralismo, ben venga la cooperazione, ben vengano i summit di Biden, ben venga il rafforzamento dell’Occidente allargato in nome dell’esaltazione del valore della democrazia. Ma finché non si imporrà sul tavolo con durezza la verità, finché sarà consentito alla Cina di prenderci in giro, finché una dittatura riuscirà a diffondere menzogne perché le sarà permesso farlo da un Occidente che si autoflagella e si auto dipinge in continuazione come “razzista”, “omofobo”, “non inclusivo”, “intollerante”, “retrogrado”, “chiuso”, “ricettacolo di diseguaglianze”, “palude di sovranismi”, non potremo mai pensare di avere un adeguato potere contrattuale nei confronti di Pechino.
E ancor più non potremo averlo se a rappresentarci saranno (come oggi sono) persone che credono a queste fandonie, e che solo ora, forse, si rendono conto di aver compiuto – magari inconsapevolmente – per anni, il più grande capolavoro di autolesionismo mai visto sulla scena geopolitica mondiale: quello di rendere debole la democrazia in nome della stessa democrazia, e di dare adito a tante, troppe ipotesi di volerla soppiantare. Magari proprio con una “democrazia con caratteristiche cinesi”.