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La reazione della provincia ai grandi centri urbani non è solo populismo

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La frattura tra le metropoli e le periferie è aumentata con i lunghi effetti della crisi economica, generando movimenti di protesta antisistema. Ma c’è anche dell’altro: il divario è di pensiero, oltre che socio-economico

Il rapporto tra la città e la provincia ha più volte contrassegnato parte del dibattito pubblico con modalità diverse. Tra gli anni ’70 e ’80, per esempio, con l’affermarsi dell’ambientalismo, la provincia – spesso intesa come campagna – faceva da contraltare all’immaginario della metropoli sporca e inquinante grazie ai suoi immensi spazi verdi e al ritmo di vita meno serrato e più riflessivo. Un ritratto che si è consolidato nel tempo, salvo poi fare i conti con la nuova stagione ecologista che non risparmia nemmeno la campagna per colpa degli allevamenti intensivi, dell’anidride carbonica sprigionata dai bovini e dall’enorme consumo d’acqua per produrre carne.

Oggi il tema è più che mai caldo per un cleavage politico: il grande centro urbano vota a sinistra, quello provinciale a destra. Nei giorni scorsi la rivista americana The Atlantic ha proposto un’interessante analisi della questione (qui il resoconto pubblicato da Il Foglio), portando come casi di riferimento l’elezione di Trump alla Casa Bianca piuttosto che l’esito del referendum su Brexit o il successo di Emmanuel Macron su Marie Le Pen e l’Ungheria di Viktor Orbán, sottolineando e rimarcando il divario economico che la crisi del 2008 ha generato tra le due aree: “Non ha avuto grande impatto sulle capitali finanziarie come Londra, Amsterdam e New York, ma ha gravemente danneggiato le ex regioni industriali schiacciate dall’austerity”. A ciò si è aggiunta la miopia della classe governativa occidentale, “avendo ignorato per molto tempo le istanze di chi vive lontano e concentrando le proprie risorse nei centri urbani”. In questo scenario che rappresenta “la nuova divisione sociale in occidente (…) i populisti continueranno ad esistere e ad avere un consenso ampio”.

“Purtroppo – continua The Atlantic – molti liberal americani si sono rifiutati di affrontare le cause del populismo e hanno preferito negare l’esistenza del problema, dando la colpa alle interferenze russe”: nulla da eccepire, un ragionamento che si può applicare anche ad altri contesti diversi da quello statunitense. Ma restano alcune perplessità che la stessa testata involontariamente suscita: è davvero tutto populismo quello che proviene dalla provincia? È facilmente etichettabile in questo modo lo spirito reazionario che vi si respira? Ed è per forza migliore l’orizzonte progressista che caratterizza le metropoli, come si suppone leggendo l’intervento?

Per prassi si ritiene che le ideologie del Novecento siano morte. Sarà, ma i loro figli resistono: da una parte l’ideale interventista che si è ben radicato tanto a sinistra quanto in certe correnti di destra, dall’altra l’ideale antistatalista, in contrapposizione alle larghe maglie del primo. Possono aiutare, i due, a trovare delle risposte che non riconducano per forza al populismo. Perché se è vero che alcuni movimenti antisistema (quali grillini, gilet gialli e per certi versi la Lega salviniana) perseguono un programma confuso che mischia un po’ dell’uno e un po’ dell’altro in maniera raffazzonata e, dunque, secondo il vocabolario contemporaneo, “populista” (alla lunga però gli elettori se ne accorgono e cambiano strada), è altrettanto vero che nei grandi centri – che “ospitano” i centri di potere come istituzioni, vertici amministrativi e luoghi di pensiero come le università – l’idea di continue sovrastrutture che intervengono e si moltiplicano, fagocitando sempre più ampie quote di potere, viene coccolata e nutrita anche sulla base del pregiudizio che fa credere a chi la coltiva di essere un paio di gradini sopra agli altri e quindi in una posizione “illuminata” per regolamentare. Un’invasione, invece, agli occhi di vive sull’altro lato del fronte, in provincia, fuori dalla cerchia dei bastioni e sommariamente inquadrato come chi non possiede requisiti o gradi di istruzione sufficienti per organizzare la propria esistenza e prendere decisioni che riguardano l’interesse collettivo.

L’antieuropeismo, ad esempio, non può essere giudicato esclusivamente come una forma di populismo, perché sarebbe riduttivo: può essere infatti anche espressione di un’oggettiva preoccupazione per un complesso sovrastato che tende a uniformare le differenze che contraddistinguono invece le diverse comunità di appartenenza, promuovendo istanze antistataliste e a favore di una maggiore competizione e concorrenza (“Out and into the world”, uno degli slogan dell’euroscetticismo britannico). Non esattamente prerogative del comune pensiero populista che, andando ad analizzare in profondità il suo programma, punta non a limitare lo stato, ma a riformarlo perché certo che possa tornare a garantire ciò che in realtà non gli riesce bene (monopolio dei servizi e interventismo economico).

Perché i pensatori cosmopoliti se ne rendano conto basterebbe che smettessero di considerare i provinciali come dei “villani” e iniziassero ad ascoltarli con attenzione, senza disparità. Perché il divario non è solo economico, ma anche di pensiero.

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