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La religione secolare dei diritti civili: da limite al potere statale a strumento di egemonia politica

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Risuona nel dibattito pubblico, nelle aule d’accademia e in quelle di tribunale, sugli schermi televisivi, tra le pagine dei libri e persino nelle chiacchiere da bar, come in un sinistro carnevale, il peso sempre più espanso e bulimico dei diritti civili. Autentica religione di Stato, con i propri chierici, i propri forgiatori, i propri esecutori materiali e quelli, magari più defilati, di matrice morale.

Raymond Aron, Elie Wiesel, Francois Furet, con vari accenti e varie sfumature, misero in luce il piedistallo di marmo e alabastro di questa nuova Chiesa, ne sottolinearono la consistenza, le sfumature, le caratterizzazioni: un tempo diritti dell’uomo in quanto uomo, in quanto cioè attore civile partecipante di un consesso che per la prima volta lo riconosceva protagonista dopo secoli di sudditanza e di soggezione, barriera protettiva dal potere statale e politico spesso malevolo deflagrato in alcuni casi nel massacro e nel genocidio, ma poi rifluiti in una dimensione altra.

Ce lo insegna Jean-Louis Harouel nel suo delizioso “I diritti dell’uomo contro il popolo” (Liberilibri, 2018), la religione dei diritti dell’uomo è oggi la versione più diffusa della religione dell’umanità: una prosecuzione dei grandi millenarismi, una forma quasi gnostica e certo mistica che riproduce la propria esistenza negando qualunque alternativa, fatta scomparire nella lingua di fiamma della malvagità.

Perché, e questo appare chiaro, qualunque diritto umano, per la sua stessa essenza e per la modalità in cui viene proiettato nella percezione sociale, diventa un paradigma incontestabile: da qui deriva la sua struttura moralistica più che morale. E si sa, è ben noto, ogni moralista tende inesorabilmente a nascondere i propri scheletri negli armadi altrui. È d’altronde chiaro come ogni diritto civile, civico e umano si basi sull’assunto della sua irrinunciabilità, della sua bontà, del suo essere manifestazione terrena di un potere quasi celeste.

Non stupisce, data questa prospettiva, come questa religione secolare sia divenuta appannaggio di una determinata parte politica che smarrita per via, generalmente per consunzione, la propria missione storica di redenzione ed emancipazione del proletariato si è avventurata alla ricerca di sempre nuovi proletari.

Persi i lavoratori, di cui a questa parte politica non interessa più nulla, si sono cercate in ogni angolo oscuro del globo minoranze discriminate, oppresse, messe in un cantuccio, per farne il nuovo oggetto di culto della religione civica e civile.

E proprio perché il culto del diritto umano si è reso prosecuzione del comunismo con altri mezzi, se ne è scoperta anche la potenza di camuffamento e di distorsione dell’attenzione pubblica, la valenza strategica, strumentale, in termini di egemonia politica.

Si indica il dito, mentre più in là si staglia la sagoma perlacea della luna. E in tempi pandemici, potete giurarci, additare qualche malvagio alla pubblica esecrazione oltre a respingere e sospingere lontano curiose attenzioni dai propri scheletri e dalle proprie falle, aiuta anche a sottolineare ancora di più la scarsa credibilità, la piccolezza d’animo, la strutturale infamia dell’antagonista.

Ed una volta che il nemico sarà riconosciuto come tale, cioè deumanizzato, spogliato della sua possibilità e legittimazione a far parte del consesso civile e democratico, egli finirà per essere ridotto alla più pura inazione, in qualunque ambito sociale, economico, politico, culturale.

Li potremmo definire, in questa prospettiva, la mossa Kansas City delle opzioni giuridiche e concettuali: nel film “Slevin”, un noir avvincente e a modo suo cerebrale e brutale, c’è Bruce Willis che spiega, e subito dopo attua, una mossa Kansas City, una tattica di distrazione funzionale a colpire velocemente e in maniera letale.

Perché, assai spesso, non c’è davvero nulla di umanitario in chi vuotamente ciancia, come fosse uno stanco mantra, di diritti umani: li vediamo, se ne riempiono tronfi la bocca, li pasturano a getto continuo, in vuoti dialoghi a una sola voce, quella che sentono nel loro cervello nella torsione psicotica delle rivendicazioni sociali.

Per verificare quanto siano poco ‘umani’, ma molto moralisti, questi assertori totalitari dei diritti dell’uomo basta d’altronde tentare di argomentare contra: e per quanto possiate motivare, spiegare, dettagliare le vostre asserzioni, per quanto cerchiate di lenire ogni tentazione polemica, sarete comunque coperti e subissati da un oceano di insulti, minacce e avvertimenti in stile mafioso.

È la riproposizione della schmittiana inimicizia assoluta, con una metaforica riga tracciata in terra a separare i buoni e dall’altro lato, in penombra, i malvagi, i rinnegati della storia. Quelli con cui non si deve nemmeno parlare. I paria. Gli appestati.

Perché se un diritto civile integra una religione, chiunque se ne discosti finisce con il meritare il rogo. E le segrete e le cellette della Inquisizione sono state sostituite dagli appelli degli intellettuali, dall’ostracizzazione prima latente e poi scoperta di ogni eretico, dalla semantica scelta e utilizzata con chirurgica cura, tesa sempre a volare verso l’assoluto proprio per annullare in culla qualunque ipotesi dialogica.

Dei diritti civili, d’altronde, non si parla, li si accetta e basta, quasi fossero un ultimatum.

Ma i diritti civili, diciamolo con franchezza, non producono nulla, se non autogratificazione intellettuale in chi se ne fa promotore, glorificazione elettorale di qualche politico la cui agenda è integralmente occupata dagli stessi e la celebrità, di ritorno, di qualche stanco vippetto dimenticato e dalla carriera incerta: i diritti civili non producono nulla perché, semplicemente, chi se ne rende portavoce li declama, come fossero i versi di Dante pasticciati da Benigni, ma si guarda bene dal preoccuparsi della loro implementazione. Cioè, detto francamente e forse brutalmente, del fatto che essi possano produrre davvero qualche effetto.

Ogni diritto per essere davvero tale dovrebbe essere seguito, valutato, soppesato, anche nei suoi costi, analizzato nelle esternalità negative, nelle distorsioni e nella sua esigibilità: al contrario, abbiamo diritti-slogan, enunciati enfatici buttati a casaccio nel dibattito.

E se, per dirla alla Bobbio, viviamo nell’età dei diritti, in questo postal market di rivendicazioni e di mere descrizioni storiche sussunte nel corpicino di una norma, se ci troviamo nel flusso continuo, inarrestabile, torrenziale di pretese innalzate a religione civile, finiremo per sfociare in quella che Alfonso Celotto definisce “età dei (non)diritti”.

Con una significativa aggravante: il sovraccarico, sensoriale, culturale e anche economico, che finisce per rendersi zavorra. Per cristallizzare e ossificare in maniera permanente l’evoluzione della vita in società.

Un po’ come una falla nello scafo di una barca, l’acqua all’inizio filtra in piccoli rivoli, ma poi la falla si espande, si slabbra e i rivoli diventano fiumi e la barca affonda. Il meccanismo è lo stesso, sostituendo solo la barca con l’ordinamento giuridico.

C’è un dibattito, si introduce un tema, questo tema viene raccolto spesso da una parte politica che presenta un disegno di legge, non curandosi di cosa davvero ne verrà fuori e da qualche giudice particolarmente attivo e attivista che voglia permeare la società con la sua missione: si riconosce una situazione meritevole di giuridico apprezzamento, e con ciò stesso la si porta ad esistenza.

E in quel riconoscimento ci sono, in apparenza e a parole, trasferimento di risorse economiche, attenzione mediatica, tutela: una bandierina che si fa garrire per reclamare il consenso di una certa minoranza o di singoli, ma potenti, individui.

Il “costo dei diritti”, per richiamare alla mente un noto saggio di Cass R. Sunstein e di Stephen Holmes, se ne sta là, immoto: si allocano risorse, le si spostano, le si tolgono, le si ripartiscono, per tentare di dare una prima implementazione ad agende politiche tese ad assecondare la religione secolare dei diritti civili, ma le risorse sono scarse.

Non si può pensare di produrre uno scacchiere di migliaia di nuove situazioni giuridiche, di nuovi diritti, e davvero ritenere che ciascuno di essi avrà una qualche rilevanza pratica e contingente. E così la macchina di produzione dei nuovi diritti si rende ologramma, evanescente scenario di slogan facili e accattivanti, programma elettorale buono solo per farsi dare una pacca sulle spalle.

Perché di quelle minoranze nulla davvero interessa a chi parla dei diritti civili. È un soliloquio, conta solo il diritto in sé, slegato dalla realtà, dalla sua umanità. Forse lo sanno, lo capiscono, ma cinicamente nascondono la palese realtà dei fatti: se tutto è diritto, nulla è più diritto.