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La resa degli italiani al paternalismo di Stato: assuefazione alle misure illiberali e urne vuote

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È fisiologico che, in democrazia, una piccola fetta di elettori non voglia recarsi alle urne ed esprimere il proprio voto. Si tratta di un fenomeno largamente diffuso in Italia che si ripresenta periodicamente dall’inizio della Seconda Repubblica. Prima di Mani Pulite, l’inchiesta giudiziaria che stravolse il sistema politico, i partiti erano capaci di mobilitare masse e individui. Dalla Democrazia cristiana al Partito comunista, promuovevano visioni opposte della società, ma allo stesso tempo chiare e definite. Al giorno d’oggi, i partiti non sono più in grado di suscitare passione e tanto meno senso di appartenenza.

Tuttavia, l’astensionismo registrato nelle ultime elezioni amministrative rappresenta un dato politico tanto inedito quanto allarmante. L’insofferenza per i partiti “tradizionali”, manifestatasi più volte nel corso della nostra storia recente attraverso il voto di protesta per Movimento 5 Stelle e Lega, ha subito un’evoluzione repentina negli ultimi mesi. È come se, dopo un anno e mezzo di limitazioni delle libertà individuali, i cittadini avessero smarrito ogni interesse per la cosa pubblica. All’indignazione iniziale di alcuni, anzi, di pochi per la compressione dei diritti fondamentali, è subentrata l’indifferenza dei più.

Dall’inizio della pandemia, il dissenso viene criminalizzato ricorrendo ad ogni mezzo politico e mediatico. Con le dovute eccezioni, giornali e trasmissioni televisive hanno assecondato le misure illiberali attuate in nome dell’emergenza sanitaria anziché sottoporle al vaglio di un’opinione pubblica responsabile. Chiunque abbia criticato lockdown e Dpcm è stato tacciato di “negazionismo”. Perfino Sabino Cassese, giurista di chiara fama, è stato apostrofato con questo epiteto per aver messo in dubbio la costituzionalità dei decreti varati dal governo Conte 2. Lo stesso trattamento viene riservato oggi a chi contesta il Green Pass, uno strumento contraddittorio di cui Atlantico Quotidiano ha più volte evidenziato le criticità.

Ad alimentare l’insofferenza verso la politica, culminata nell’astensionismo dell’ultima tornata elettorale, ha contribuito in modo determinante il clima magmatico e deforme in cui ci troviamo: da un lato un partito di opposizione, Fratelli d’Italia, con un forte consenso nel Paese, ma con una debole rappresentanza parlamentare; dall’altro un governo di unità nazionale sostenuto dalla stragrande maggioranza dei partiti. Una situazione che, pur essendo dettata dalla contingenza storica, rischia sul lungo periodo di scoraggiare gli elettori, instillando il dubbio che alla fine il voto non sia poi così importante e che la rappresentanza popolare, alla base di ogni democrazia, possa essere sacrificata per un fine superiore.

Come ha spiegato molto lucidamente il filosofo Giorgio Agamben, “la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita. È evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi”. Ormai ci sembra tutto normale: la proroga dello stato d’emergenza al 31 dicembre, il Green Pass per andare al lavoro, i Dpcm che si susseguono a intervalli più o meno regolari. Anziché inorridirci, il paternalismo di Stato ci rassicura. E quando abbiamo la possibilità di esprimere il nostro dissenso nelle urne, non cogliamo l’opportunità. Anzi, la ignoriamo.

Come abbiamo detto all’inizio, la gestione schizofrenica della pandemia ha rinnovato la sfiducia di molti italiani verso l’importanza del voto, di far valere cioè la propria opinione nell’arena democratica. Con buona pace di Winston Churchill che, in un discorso alla Camera dei Comuni del novembre 1947, affermava: “È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora”. E noi siamo d’accordo con lui.