La riforma del MES ci porta al cuore della “questione europea”, che è prima di tutto politica

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L’ultimo, maldestro, intervento del Governo Conte 2 sullo European Stability Mechanism – o MES che dir si voglia – ha fatto riesplodere la polemica sul ruolo dell’Italia in Europa, sulla sostenibilità del nostro debito pubblico e, di conseguenze, sulla capacità del nostro Paese di finanziarsi sui mercati.

L’audizione del ministro dell’economia e delle finanze Gualtieri in Senato fa seguito alle dichiarazioni del vicepresidente della Commissione europea, il lettone Dombrovskis che, da Bruxelles, auspicava “una procedura rapida per l’approvazione della manovra 2020 senza che venga snaturata dal Parlamento”. Dalla ratifica del Trattato di Maastricht in poi, passando per il Fiscal Compact e il fondo salva-stati, sono anni che il Paese si ritrova a discutere di virgole nel rapporto deficit/Pil, flessibilità, e vincoli di bilancio senza andare in profondità nella “questione europea”. Una questione che è prima di tutto politica e non economica o finanziaria. Intendiamoci: non si intende sottovalutare quanto sia importante per uno stato finanziarsi a tassi sostenibili, operare con politiche di bilancio prudenti e senza ricorrere a un indebitamento eccessivo. Queste, peraltro, sono tutte caratteristiche che i migliori stati nazionali del mondo perseguono. Ma le ultime vicende sulla riforma del MES impongono una riflessione che è anche una domanda: fino a che punto è auspicabile per uno stato nazionale la presenza di un vincolo esterno?

Il governo giallorosso nasce sotto l’egida dell’Ue, questo è risaputo. I primi incontri internazionali del capo dello Stato e del presidente del Consiglio, dopo l’addio della Lega all’esecutivo nello scorso mese di agosto, sono stati con i presidenti di Germania (Steinmeier) e Francia (Macron). Ma se la riflessione non può per forza di cose partire dal ministro Gualtieri o da partiti che accetterebbero qualsiasi cosa pur di non perdere le poltrone, è bene che si faccia strada nella società italiana un filone di pensiero che inizi a interrogarsi sull’Europa e sull’Italia in Europa.

La politica economica di un governo non è solo una questione di miliardi da spendere o di conti da far tornare. È il simbolo dell’indipendenza di uno stato, della sua capacità di essere autonomo, ed è il risultato delle istanze che i parlamentari eletti dal popolo esprimono nelle assemblee legislative. I grandi stati nazionali come la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti crebbero e prosperarono in primis grazie alla loro indipendenza fiscale, monetaria e finanziaria. La democrazia liberale fondata sulla rappresentanza è l’esito politico di un processo economico che ha visto i sudditi acquisire sempre più potere sulla base dell’assioma no taxation without representation. Questo fino a quando Gualtieri, evidentemente ignaro di tutto ciò, si è presentato in Senato mercoledì scorso per dire che il MES verrà comunque approvato ed è un testo “chiuso”, non si può più modificare.

Il governo attuale si è posto come guardiano della folle ortodossia dei Trattati europei e delle loro propaggini. Maastricht prevede un rapporto tra debito e Pil che non deve eccedere il 60 per cento. Il Fiscal Compact addirittura l’impegno a rientrare in quei parametri riducendo il debito di 1/20 l’anno. Presi alla lettera, gli stati finirebbero per investire e occuparsi della gestione della cosa pubblica e dedicherebbero la loro esistenza non alle esigenze dei loro cittadini, ma a soddisfare quanto partorito da organi sovranazionali e da qualche éminence grise bruxellese.

Il vincolo esterno e la supplica di occuparsi di noi sono sempre un male. Uno stato che si rispetti deve essere indipendente, autonomo e responsabilizzato. Solo così può cooperare con gli altri stati per il progresso dell’Europa, ponendosi in modo credibile e non da mero questuante. Il processo di integrazione politica dell’Europa sta vivendo, eufemisticamente, una fase di stallo. Francia e Germania per ragioni diverse non vogliono cedere sovranità, così come i Paesi del gruppo di Visegrad. La Gran Bretagna ha risposto alla questione del vincolo esterno salutando l’Unione e decidendo di percorrere un’altra strada. In Italia non si arriverà mai a un referendum sull’uscita dall’Ue o dall’euro: la Costituzione non lo prevede. Ma sarà forse il caso di chiedersi perché siamo rimasti gli unici eurolirici – se non eurocitrulli – quando tutti perseguono il proprio interesse nazionale. Sarà il caso di portare avanti concretamente politiche di riforma dei Trattati meno vincolanti per gli stati membri ricordando che non basta gridare “al lupo! Al lupo!” ma che per ottenerle servirà agire con il consenso degli altri stati perché si dovrà fare all’unanimità. Sarà il caso di ribaltare anni e anni di politiche accondiscendenti nei confronti di autentici signori Nessuno della politica mondiale o ex premier lussemburghesi che non passeranno certamente alla storia (perlomeno non a quella della politica). Da qui dovrà partire il prossimo governo quando, come si spera, i giallorossi, tra non molto, tireranno le cuoia.

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