Lo scoop l’ha realizzato il quotidiano spagnolo El País, che è riuscito a procurarsi in esclusiva il documento cartaceo contenente la risposta congiunta Nato-Usa alle richieste russe sulla sicurezza in Europa Orientale. Sia Washington che Mosca negano di averlo filtrato, ma è difficile immaginare che, senza l’attiva partecipazione di uno dei due principali attori della crisi in corso, il paper sarebbe potuto arrivare ad un organo di stampa. Ripreso immediatamente dalle principali testate internazionali, è diventato nel giro di pochi minuti di pubblico dominio. John F. Kirby, portavoce del Pentagono, ha colto subito l’occasione per dichiarare che “adesso il mondo ha la conferma che le nostre dichiarazioni ufficiali corrispondevano alla realtà”, riferendosi alla volontà di Washington di trovare soluzioni condivise.
Vediamo allora cosa si dice nel documento, premettendo che non presenta rivelazioni sensazionali ma sì alcuni elementi nuovi che indicano quantomeno una volontà di trattativa. In questo senso, mentre la risposta dell’Alleanza (NATO-Russia restricted) si limita a ribadire i principi fondanti dell’organizzazione (su tutti la open door policy) e a ricordare a Mosca le reiterate offerte di cooperazione negli anni post-Guerra Fredda, quella di Washington (Non-paper/Confidential) entra più direttamente nel merito delle questioni sollevate dalla controparte russa e abbozza alcune possibili intese negoziali: “siamo disposti a considerare accordi anche formali con la Russia su questioni di reciproco interesse”, recita il comunicato statunitense. Come ampiamente prevedibile, nessuna delle richieste cardinali di Mosca viene presa in considerazione: né la pretesa di garanzie scritte sulla fine dell’espansione della Nato ad Est, né lo smantellamento della presenza alleata nei Paesi dell’ex Patto di Varsavia, né il ritiro degli armamenti nucleari americani in Europa. In cambio però l’amministrazione Biden offre a Putin un “meccanismo di trasparenza” in base al quale la Russia potrebbe verificare l’assenza di missili Tomahawk in Romania e Polonia, mentre gli Stati Uniti farebbero lo stesso in due basi di lancio missilistiche a loro scelta in territorio russo.
È una carta ben giocata, per due ragioni: da una parte accoglie la preoccupazione espressa a più riprese dai russi per il fatto che i sistemi di difesa missilistica della Nato installati in territorio rumeno e polacco potrebbero all’occorrenza convertirsi in offensivi; dall’altra permetterebbe a Washington di disinnescare la minaccia proveniente dall’enclave di Kaliningrad, sul Mar Baltico, dove Mosca ha stanziato missili a medio raggio in grado di trasportare testate convenzionali e nucleari (motivo per cui gli Stati Uniti e i loro alleati hanno abbandonato l’I.N.F. Treaty, nel 2019).
Ma c’è un secondo punto importante nel documento: la proposta americana di un impegno reciproco a non dispiegare missili offensivi o truppe da combattimento in missione permanente in territorio ucraino. Come ha prontamente notato il ministro degli esteri di Kiev, Dmytro Kuleba, mentre gli Usa non hanno al momento né missili né effettivi in Ucraina, la Russia dispone di entrambi: l’implementazione di un accordo di tal fatta implicherebbe quindi il ritiro russo. “Non abbiamo obiezioni”, ha fatto sapere Kuleba. Una formulazione specialmente significativa se vista nel contesto dell’invio di 3 mila soldati statunitensi in Germania, Polonia e Romania e se letta insieme ad un altro passaggio del documento, in cui Washington avverte che eventuali nuove aggressioni contro l’Ucraina imporrebbero un “rafforzamento delle posizioni difensive” alleate in Europa.
Insomma, un pacchetto di proposte ben confezionato dalla Casa Bianca, a cui va aggiunta la disponibilità a discutere un’altra nota ossessione russa, che in linguaggio diplomatico si conosce come “indivisibilità della sicurezza” – ovvero l’idea che una nazione non possa cercare di aumentare la propria sicurezza a spese di un’altra. La Russia, ça va sans dire, ha dimostrato di utilizzare questo concetto in maniera intermittente, pretendendone il rispetto dai membri della Nato ma infischiandosene allegramente quando si è trattato di entrare in territorio ucraino o georgiano. Non per nulla gli Usa hanno sempre rifiutato la sua applicazione nel senso di costituire una restrizione al diritto di un Paese sovrano “di scegliere o cambiare i suoi accordi di sicurezza, compresi i trattati di alleanza“. Open door policy, di nuovo, tassello indiscutibile.
Le aperture americane si sono scontrate con un prevedibile niet da parte del duo Putin-Lavrov che, pur prendendosi il tempo necessario per riflettere sulla risposta congiunta, ha mostrato la sua insoddisfazione per quella che considera come una mancata assunzione di responsabilità da parte alleata. Tutto scontato, la diplomazia fa il suo corso, la guerra incombe ma intanto entrambe le parti prendono tempo e la trattativa continua. Il tempo, però, non gioca a favore della Russia: Putin prima o poi dovrà muovere le sue pedine sulla scacchiera in modo da dimostrare di non aver bluffato. Fare la guerra o accettare le trattative sul controllo degli armamenti offerte da Washington? Si attendono 30 mila soldati russi in Bielorussia per esercitazioni militari congiunte nei prossimi giorni, che si aggiungeranno ai 120 mila da tempo installati al confine con l’Ucraina. Il ministro della difesa Shoigu è da giovedì in territorio Lukashenko a ispezionare le truppe: se non politicamente, almeno a livello militare l’unione russo-bielorussa è già un fatto compiuto.
Ma quella di Mosca sembra sempre di più una situazione lose-lose, anche perché la scommessa russa di indebolire i legami dell’Ucraina con l’Occidente attraverso l’annessione della Crimea e la guerra di logoramento nel Donbass non ha avuto successo. Dal 2014 ad oggi Kiev non solo ha rafforzato il proprio esercito ma ha consolidato la sua seppur fragile democrazia interna e ha legato il suo destino in misura crescente alla protezione americana. Un conflitto su larga scala condannerebbe la Russia, come minimo, ad una batteria di sanzioni economiche senza precedenti, senza contare l’impatto probabilmente irreparabile sul suo prestigio internazionale, già ampiamente compromesso. È un futuro di isolamento in Europa quello che Putin sta preparando per i russi in nome della riconquista dell’Ucraina? Con quali garanzie di successo? Difficile pensare che qualsiasi obiettivo che non sia l’intera occupazione del territorio o l’insediamento manu militari di un governo fantoccio a Kiev possa garantire al Cremlino il controllo che pretende di esercitare sul Paese. E, se anche lo ottenesse, a che prezzo potrebbe mantenerlo?
Al di là delle ragioni storiche e tradizionali che legano e, a tratti identificano, Russia e Ucraina, al di lá della valenza geopolitica di questa terra di mezzo, la crisi attuale altro non è che lo specchio del rapporto controverso e spesso perverso che la Russia putiniana ha instaurato con l’Occidente nell’ultimo decennio, e che non a caso coincide con la fase declinante della presidenza dell’ex agente del Kgb.
In questo contesto, già di per sé intricato, si inserisce il tentativo di mediazione di Emmanuel Macron, che lunedì si vedrà con Putin a Mosca e, di seguito, viaggerà a alla volta di Kiev. Non che non sia apprezzabile in sé il voler scongiurare un conflitto al centro dell’Europa, sempre che i ruoli e le responsabilità siano chiare. Nella visione macroniana, invece, sull’intenzione di ricucire i rapporti sembra prevalere quella di aprire le porte a una revisione della politica di sicurezza europea d’accordo con Mosca. Quando il capo di Stato francese parla di “un dialogo sull’iniziativa di Putin di sviluppare garanzie di sicurezza vincolanti e di lungo periodo per la Federazione russa” sostanzialmente conferma che la sua è un’iniziativa personale, in contrasto con lo spirito della lettera congiunta Nato-Usa, nella quale si ribadisce al contrario la difesa dello status attuale in opposizione alle dottrine revisioniste del Cremlino. Ma l’interpretazione potrebbe essere perfino più estensiva, dal momento che le dichiarazioni di Macron si potrebbero leggere come il riconoscimento di fatto dell’esistenza di un problema di sicurezza nel continente europeo (musica per le orecchie di Putin), con conseguente legittimazione non solo delle rivendicazioni russe ma anche delle posizioni acquisite sul campo in seguito alle operazioni annessionistiche e belliche del 2014. Il tempo dirà quale ruolo la Francia ha deciso di ritagliarsi in questa crisi, già complicata dalle ambiguità tedesche.
Intanto Putin, a Pechino per l’inaugurazione dei Giochi Invernali, incassa l’appoggio di Xi Jinping sul fronte Nato: no all’allargamento ad Est, avverte la Cina, pur senza menzionare esplicitamente l’Ucraina. La prima reazione ufficiale al documento Nato-Usa arriva dal Partito Comunista Cinese.