Mappa della rivista Limes
Obiettivi generali e ruolo della Russia sullo scenario internazionale – Forse mai come nel caso russo è importante considerare un Paese nel contesto geografico e geopolitico nel quale è inserito. Per la Russia la dimensione ideale, vale a dire l’immagine che ha o ha avuto di se stessa nelle distinte epoche storiche, e la dimensione geografica, ossia la proiezione territoriale che ha caratterizzato le varie fasi della sua esistenza sostanzialmente coincidono. Questa premessa ha assunto un carattere particolarmente evidente a partire dalla fine dell’Unione Sovietica, di cui ricorre quest’anno il trentennale, momento nel quale la Russia, molto più delle altre nazioni che componevano il mosaico sovietico, si è ritrovata orfana di una ideologia che, per quanto artificiale, imposta, e il più delle volte tragica nelle sue conseguenze, ne costituiva comunque un supporto identitario. Tanto è vero che oggi chi esprime nostalgia per il passato sovietico non si riferisce generalmente al sistema comunista ma piuttosto al fatto di aver perso una patria. La mancanza di un’identità definita ha caratterizzato l’intero trentennio trascorso e sembra che nemmeno Putin, nonostante i tentativi di rivitalizzare un certo nazionalismo russo legandolo anche alla rinascita della chiesa ortodossa, sia riuscito a restituire una visione coerente di sé al Paese. Ecco dove comincia a percepirsi l’importanza dell’estero vicino nel caso russo: l’identità nazionale della Russia putiniana si declina ancora in gran parte in negativo, ovvero a partire dalle relazioni con i Paesi che la circondano.
Possiamo individuare due obiettivi essenziali della politica estera russa nel suo estero vicino: il primo è la prevenzione di cambiamenti politici (leggasi rivoluzioni colorate, adesioni a Ue o Nato) che accrescano l’influenza occidentale nella zona, il secondo è il mantenimento dello status del Paese come potenza globale (o presunta tale). Anche se a volte si è tentati di ridurre il suo ruolo a quello di un soggetto regionale, oggettivamente la Russia dev’essere considerata un attore globale per una ragione quasi scontata, ovvero il suo territorio: la Russia è troppo grande e il suo peso geografico (e per estensione geopolitico) ne condiziona necessariamente l’azione. Un’estensione territoriale che, per la verità, nel corso della storia ha costituito più una debolezza che un punto di forza (si vedano a questo proposito i lavori di Alfred Rieber): la Russia è naturalmente esposta alle invasioni, all’accerchiamento, e questa consapevolezza ha sempre definito anche psicologicamente la sua proiezione all’estero.
La Russia in Europa, in Asia e in Medio Oriente – Partiamo dall’Europa dove, sullo sfondo di ogni diatriba economico-diplomatica che riguardi Mosca, si intravede sempre lo spauracchio del riavvicinamento russo-tedesco. Nei fatti si tratta di una prospettiva ancora lontana, soprattutto per ovvie ragioni di convenienza a Berlino: la Germania non può permettersi di sganciarsi dall’ombrello difensivo americano. Ma, allo stesso tempo, questo possibile scenario sottende gran parte delle riflessioni che si svolgono oltreoceano sullo spazio europeo. La Russia è in un certo senso lo specchio riflesso della Germania: ampia disponibilità di risorse naturali, capacità produttiva limitata, esportazione di materie prime, importazione di beni finali. Le due economie sono quasi complementari. Da qui la valenza economico-politica di qualsiasi upgrade nelle relazioni diplomatiche e commerciali, come dimostra la vicenda del gasdotto Nord Stream 2, destinato a raddoppiare il collegamento dalla costa russa alla Germania attraverso il Baltico. Il suo completamento sembra ormai in dirittura d’arrivo nonostante i malumori e gli avvertimenti americani.
Il Nord Stream 2 è un’enorme leva di influenza russa in Europa occidentale e un grosso grattacapo per gli Stati Uniti in quanto, per farla breve, scavalca il contenimento terrestre che gli Usa hanno affidato a Polonia e Romania e potenzialmente taglia fuori dal mercato delle forniture l’Ucraina.
Rispetto alla Cina, la Russia è ovviamente vista dagli Stati Uniti come il rivale più debole. Il suo contenimento in Europa risponde quindi a logiche diverse, ovvero evitare che Mosca venga accettata come partecipante a pieno titolo del consesso europeo e cominci a muoversi per il continente con una certa libertà. Se gli americani non aprono alla Russia in funzione anti-cinese, come la logica delle relazioni internazionali suggerirebbe, è essenzialmente perché non vogliono rischiare di perdere il controllo geopolitico in Europa. D’altra parte la Russia, al di là della retorica, si mantiene ambivalente nei riguardi degli Stati Uniti: da un lato si assiste ad una certa cooperazione sui dossier del terrorismo internazionale e della proliferazione nucleare, dall’altro si intensificano le misure attive di propaganda e disinformazione che hanno occupato, non sempre a proposito, le cronache internazionali negli ultimi anni. Putin appare costantemente combattuto tra l’esigenza anche interna di giocare il ruolo di nemico perfetto degli Stati Uniti e la ricerca di un riconoscimento da parte americana.
Washington, dal canto suo, scommette sul fatto che Russia e Cina non saranno mai alleate in senso stretto. Alla Russia non conviene affidarsi a una potenza egemone confinante, e i suoi cittadini in ogni caso guardano all’Europa e non a Pechino, anche se l’ultimo sondaggio dell’Istituto Levada – dove solo una minoranza indicava la Russia come Paese “europeo” – potrebbe far pensare il contrario. In realtà, una cosa è come i russi giudicano la proiezione internazionale del loro Paese, altra cosa è come vedono la loro proiezione personale. Anche la Cina peraltro tratta la Russia da una certa distanza, nonostante l’intensificarsi formale delle relazioni in ambito militare: più come un fornitore potenziale di materie prime, come partner da utilizzare secondo le convenienze del momento che come un alleato strategico.
Pechino ha ambizioni più vaste, che superano anche fisicamente la Russia. I cinesi non amano le alleanze, il loro obiettivo è installarsi in Europa occidentale e la Russia è una barriera naturale difficilmente sormontabile (si pensi all’Unione Economica Eurasiatica, che rompe, anche geograficamente, la continuità della Nuova Via della Seta). Il secolo cinese ha senso solo se proiettato sul continente europeo, anche perché sull’Asia la Cina ha paradossalmente un’influenza limitata se paragonata all’immagine che abbiamo della sua potenza: in realtà sui mari è in grossa difficoltà, non ne controlla praticamente nessuno, e si trova a competere con alleati storici degli Stati Uniti, su tutti il Giappone che probabilmente è la nazione più filo-americana del pianeta.
Ampliando il punto di osservazione, la Russia è oggi un attore particolarmente attivo nel Mediterraneo. In Libia è arrivata a cose fatte (appoggiando Haftar), ma in Siria ha avuto un ruolo da protagonista nel puntellare e salvare di fatto il regime di Assad ma anche nello sconfiggere, con il contributo dei curdi costantemente dimenticati, l’Isis. In Libia, Russia e Turchia (che invece sosteneva El Serraj) sono su fronti formalmente opposti: in Siria, la Turchia ha finito per ammorbidire le sue posizioni di sostegno ai cosiddetti ribelli dopo una prima fase chiaramente anti-governativa. Sul fronte del Nagorno-Karabakh le due potenze si sono di nuovo ritrovate l’una contro l’altra dal punto di vista politico-diplomatico, anche se non si è mai giunti allo scontro aperto: ma il dover ammettere la Turchia a pieno titolo come attore nello scenario armeno-azero ha certamente supposto un colpo importate per le ambizioni di Mosca. Nonostante questa situazione di rivali in ambito regionale la Russia continua a vendere i missili antiaerei S-400 alla Turchia ed è – tramite Rosatom – il maggior sponsor della centrale nucleare in costruzione in territorio turco, nella provincia di Mersin. La Turchia gioca su più sponde, ci torneremo fra breve a proposito del caso ucraino, e sarà realmente interessante vedere come le relazioni fra questi due ex grandi imperi continueranno a dilatarsi e a contrarsi come nel movimento di un elastico.
Dal punto di vista strettamente militare la strategia di difesa russa deve far i conti con quattro criticità principali: uno svantaggio incolmabile rispetto agli eserciti Nato nella disponibilità di forze terrestri, la necessità di ricapitalizzare l’industria della difesa, un declino del capitale tecnico-scientifico che continua dagli anni ‘90, un conflitto strutturale tra spesa militare e spesa sociale. Comparativamente il suo budget dedicato alla difesa è piuttosto esiguo, paragonabile a quello dell’India, della Francia o della Gran Bretagna e una decima parte di quello americano. Sotto Putin buona parte dell’apparato industriale russo è stato rinazionalizzato, ma adesso il Paese si trova nella situazione di dover pensare a vendere per far fronte alle esigenze di spesa e alla diminuzione delle entrate da idrocarburi. Il sistema sanitario e quello pensionistico, inizialmente sovvenzionati da fondi extra-budget, hanno richiesto negli ultimi anni l’immissione di fondi statali. Con la diminuzione degli introiti del petrolio la Russia si trova da qualche anno a dover scegliere se ridurre la spesa pensionistica o quella di difesa. La recente riforma delle pensioni, che è costata a Putin diversi punti percentuali in fatto di popolarità interna, risponde principalmente a questa esigenza.
In definitiva, la Russia non possiede una forza di terra in grado di minacciare l’Europa occidentale, e forse nemmeno la stessa Ucraina nel suo insieme, vista la probabile reazione dei Paesi limitrofi alleati degli Stati Uniti che un conflitto su vasta scala scatenerebbe. Il suo arsenale bellico, umano e tecnologico, resta piuttosto difensivo: non per nulla gli impegni militari della Russia all’estero si concretizzano soprattutto in aree adiacenti, facilmente controllabili e popolate da pro-russi. Lasciando da parte Libia e Siria, che hanno rappresentato le eccezioni più eclatanti a questa regola non scritta, individuerei attualmente quattro aree di tensione principali nell’estero vicino russo: Ucraina, Bielorussia, Caucaso centrale e meridionale (Georgia, Armenia e Azerbaigian) e, seppur più limitatamente, Moldavia (soprattutto per la questione sempre aperta della Transnistria e il recente cambio al vertice con l’elezione di Maia Sandu). L’Asia Centrale è relativamente sotto controllo, nonostante i fatti dello scorso ottobre in Kirgyzstan. Nel prossimo articolo ci concentreremo sulle prime due, Ucraina e Bielorussia.