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La Russia e il suo cortile/2: l’ossessione Ucraina e l’annessione non dichiarata della Bielorussia

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La prima puntata: La Russia e il suo cortile/1: la sindrome dell’accerchiamento e quattro aree di crisi

Nel primo decennio seguito al crollo dell’Unione Sovietica la Russia ha attraversato una fase di disengagement, soprattutto per i problemi interni legati alla transizione post-comunista. A poco a poco è tornata sullo scenario internazionale, prima con cautela, cercando buone relazioni con l’Occidente, poi in maniera sempre più assertiva, secondo alcuni esperti sentendosi tradita nelle sue aspettative iniziali. Anche senza sposare a tutti i costi detta tesi, possiamo comunque individuare alcuni passaggi fondamentali in questa trasformazione: la Conferenza sulla sicurezza tenutasi a Monaco nel 2007 (con il famoso discorso di Putin sul mondo non più unipolare), il vertice Nato di Bucarest nel 2008 (dove le aspirazioni di adesione di Georgia e Ucraina si palesarono in maniera chiara), il fallito reset con gli Stati Uniti di Obama nel 2009 e la crisi ucraina del 2014, che ha definitivamente rotto i ponti con la sponda occidentale. Per dirla in maniera grafica, la sindrome da accerchiamento ha progressivamente fatto esplodere la geopolitica della Russia.

Tralasciando in questa sede le ragioni storiche e sentimentali (Russia di Kiev, battesimo di Vladimir), possiamo senz’altro dire che l’importanza dell’Ucraina per la Russia risiede nel fatto di costituire la principale barriera difensiva che la separa dall’Occidente. Putin, il grande artefice del riscatto russo, rischia paradossalmente di passare alla storia come il presidente che ha perso l’Ucraina, cioè la  prima linea di difesa del suo Paese. Putin aveva ben chiara la strategia, mantenere l’Ucraina nella propria sfera di influenza, ma ha unito male i puntini, di fatto spingendo gran parte della nazione vicina verso il “nemico”, ancor più di quanto non ne fosse già attratta naturalmente. Il peccato originale di questo immenso (per la Russia) problema politico fu l’insistenza nel voler mantenere ad ogni costo Yanukovich al potere nei giorni dell’Euromaidan: un errore rivelatosi catastrofico. A partire da quella decisione è stato un susseguirsi di passi falsi con i quali Putin ha sostanzialmente confermato agli ucraini non filo-russi, quelli del Maidan ma non solo, quelli dei nuclei urbani del centro e dell’occidente del Paese, la classe media che guarda all’Unione europea, la classe dirigente che ha bisogno del traino dello sviluppo economico e della stabilità istituzionale, che della Russia non ci si può fidare, oggi come nel passato.

Certo, alla Russia rimarrà la Crimea, ma è un’annessione che rischia di costare davvero cara, e il Donbass non basta a compensare la perdita sostanziale di un Paese chiave dell’estero vicino. La riconquista della Crimea suppone un contraccolpo molto più grande a livello di legittimità e di rispetto globale e la Russia dal 2014 sta pagando un costo altissimo. Stesso discorso si può fare a proposito delle enclaves filo-russe in Georgia e in Moldavia, dove l’insistenza nel preservare appendici territoriali affini ha di fatto contribuito ad alienare il resto della popolazione delle rispettive repubbliche.

Ma il fatto essenziale dal punto di vista di Mosca è che, senza l’Ucraina, la Russia come nazione sovrana come la conosciamo oggi non può esistere, considerando la possibilità di una presenza militare Nato e quindi americana alle porte di casa. Mentre Europa e Stati Uniti si chiedono se e in che misura valga la pena difendere l’indipendenza e la sicurezza dell’Ucraina, la Russia non ha dubbi sulla rilevanza di quello che storicamente ha sempre considerato un semplice territorio disponibile, un’estensione del suo spazio vitale, addirittura privo di una personalità statale autonoma. L’idea, accarezzata da alcuni settori della politica americana, che l’Ucraina possa essere sacrificata in nome di un disengagement o addirittura dell’appeasement con Mosca rappresenta non solo, a mio avviso, una bancarotta morale (da un punto di vista realista questo aspetto potrebbe apparire di secondaria importanza), ma soprattutto apre la strada a un clamoroso fallimento strategico, in grado di compromettere proprio quella stabilità dello spazio europeo che si pretende di raggiungere.

Si consideri innanzitutto che l’annessione della Crimea per la Russia significa non perdere un avamposto sul Mar Nero, e soprattutto sull’ambitissima costa nord dello stesso bacino. Il Mar Nero è diventato un punto strategico di primo piano nelle rispettive tattiche di contenimento, come dimostra anche una recente esercitazione avvenuta sotto comando rumeno a cui hanno partecipato un incrociatore e un cacciatorpediniere americani, nonché le navi da guerra statunitensi che si stavano avvicinando alla zona nei giorni scorsi, prima di tornare indietro dopo la telefonata Biden-Putin.

La crescente importanza di quel bacino è legata anche all’ambivalente atteggiamento occidentale (leggasi americano) nei confronti della Turchia, un membro della Nato la cui assertività preoccupa Washington ma che allo stesso tempo può essere usata in funzione anti-russa. Anche perché, secondo reports recenti, la Russia starebbe trasformando la Crimea in un’enorme base militare, con il dispiegamento di testate missilistiche e armi nucleari tattiche. Da qui il rinnovato interesse americano per il Mar Nero che potrebbe essere ulteriormente potenziato dalla realizzazione dell’Istanbul Kanal, alternativo al Bosforo, la cui esistenza significherebbe la possibilità per le navi militari della Nato di stazionare oltre i ventun giorni previsti dalla Convenzione di Montreux (1936), che diede all’Unione Sovietica prima e alla Russia poi il monopolio di fatto di quello spazio marittimo.

Che Mosca senta la pressione sia da ovest che da sud (Ankara ha ribadito pochi giorni fa il suo appoggio a Kiev) è dimostrato dalla chiusura dello Stretto di Kerch, fra il Mar Nero e il Mar d’Azov, che isola l’ultima parte di litorale ancora controllato dall’Ucraina. Una delle basi navali che Zelensky ha in programma di costruire dovrebbe affacciarsi proprio su quel tratto di costa (Mariupol).

Il vantaggio strategico che l’incorporazione della Crimea garantisce alla Russia è fondamentale anche per assicurare il collegamento con il contingente russo in Siria. Da questa prospettiva, l’Ucraina non rappresenta soltanto un Paese chiave per la stabilità in Europa ma soprattutto per la sicurezza mediorientale, dove la Russia sta assumendo un ruolo da protagonista grazie alla possibilità di estendere la propria influenza sul versante meridionale, oltre il Mar Nero, verso il Mediterraneo orientale e, appunto, il Medio Oriente (si veda al riguardo Jakub Grygiel, già trattato su Atlantico Quotidiano).

Ecco allora che l’Ucraina, da prima linea difensiva, diventerebbe invece un trampolino di lancio per qualcos’altro. Ma cosa in concreto? Secondo la scuola di pensiero più critica nei confronti delle politiche russe, l’annessione della Crimea e l’appoggio politico e militare ai gruppi separatisti nel Donbass sarebbero solo passaggi preliminari per arrivare a Kiev e collocarsi al centro della geopolitica occidentale. Un cavallo di Troia senza cui la Russia resterebbe una potenza asiatica all’ombra di Pechino, schiacciata tra democrazia e autoritarismo e senza un ruolo definito a livello internazionale. Questa visione offensiva della politica estera russa è invece radicalmente contestata da Dmitri Trenin, direttore del Carnegie Moscow Center, che ritiene che le incursioni russe nell’estero vicino siano state dettate solo da circostanze eccezionali e non rispondano ad una strategia di lungo corso, preparata a tavolino, né a un piano espansionista. C’è infine chi considera che in questo momento le relazioni tra Russia e Ucraina si stiano in un certo senso normalizzando, due Paesi vicini con un conflitto aperto ma non più una questione esistenziale per Mosca. Visti anche i recenti avvenimenti al confine russo-ucraino, personalmente mi sembra più realistico pensare a una situazione in cui si uniscono intenzioni difensive (la percezione dell’accerchiamento di cui ho parlato in precedenza) a tattiche offensive (le incursioni nell’estero vicino): una miscela difficile da interpretare per i non russi e che certamente non favorisce il riavvicinamento all’Occidente.

Il Donbass sta diventando una spina nel fianco per Putin. Quello che doveva essere un blitzkrieg per procura si è trasformato in un pantano militare e diplomatico di difficile soluzione per entrambi i contendenti. La Russia non ha le risorse per chiudere a suo favore la contesa bellica ma certamente le ha per mantenere vivo il conflitto a lungo, e forse è proprio questo l’obiettivo del recente picco di tensione. Zelensky fu eletto per mettere fine alla guerra e le sue mosse iniziali indicavano una chiara predisposizione in tal senso: fu lui il primo a disporre il ritiro delle truppe da posizioni strategiche del fronte e ad abbassare il tono della retorica bellica. Dopo due anni anche il suo atteggiamento è cambiato, in parte per le spinte nazionaliste interne ma soprattutto per l’impossibilità di aprire un dialogo costruttivo con Mosca, che ha risposto alle sue aperture iniziali blindando gli accordi di Minsk e distribuendo passaporti russi alla popolazione delle repubbliche ribelli, rendendole di fatto un protettorato.

Sullo sfondo di questo scenario certamente intricato, in cui le rispettive responsabilità si confondono e si sovrappongono a seconda del punto d’osservazione, si stagliano le reciproche accuse di mobilitazione di truppe, la crisi idrica della Crimea e la strana guerra di spie e di espulsioni diplomatiche in corso in Europa (tra Italia, Repubblica Ceca, Russia e Bielorussia), nonché i risvolti ancora tutti da decifrare della vicenda Navalny, la cui proiezione geopolitica è innegabile. Ma soprattutto c’è il trauma non superato della dissoluzione dell’Unione Sovietica, che è ancora oggi il motore della politica estera del Cremlino: la Russia, si potrebbe concludere, è oggi una potenza (alcuni direbbero regionale) con velleità da superpotenza e mezzi inadeguati allo scopo. E, in fondo al pozzo, gli ucraini e le loro aspirazioni.

L’annessione non dichiarata della Bielorussia – Anche se non ha la stessa importanza strategica (sebbene partecipi ad entrambe le organizzazioni internazionali promosse da Mosca, l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva e l’Unione Economica Eurasiatica), la Bielorussia è un caso per certi versi analogo anche se non completamente assimilabile, partendo dalla premessa che i legami culturali tra bielorussi e russi sono molto più stretti rispetto al caso ucraino. Tanto è vero che i manifestanti che da mesi subiscono la repressione di Lukashenko sono stati attentissimi a non sfidare direttamente Mosca, che di fatto assicura protezione politica, finanziamenti e supporto logistico al regime di Minsk. Putin è parso in un primo momento superato dagli eventi, sorpreso, eppure le avvisaglie di una scalata della tensione c’erano tutte e Lukashenko non si è mai dimostrato l’alleato più affidabile: pensiamo al viaggio a Minsk di Pompeo nel febbraio del 2020, quando Lukashenko pareva così sicuro di se stesso da poter quasi giocare su un doppio fronte, Mosca e Washington, pur dipendendo dalle forniture energetiche russe.

Poi, per la verità, Putin ha dimostrato di aver imparato almeno in parte la lezione, evitando la soluzione ucraina, cioè l’invio di truppe, e affidandosi invece a una forma di influenza più sottile ma nei fatti perfino più profonda. Nonostante si parli molto di una possibile unione formale tra i due Stati, che non è destinata a realizzarsi, faremmo meglio a spostare l’attenzione su una sorta di annessione non dichiarata che da mesi la Russia sta realizzando nei confronti del vicino, con il consenso tacito di quest’ultimo. Abbiamo innanzitutto la recente fondazione del partito pro-russo Soyuz, forse solo la prima di una serie di formazioni politiche destinate a costituire un fronte pro-Mosca nelle elezioni che prima o poi avranno luogo sul cadavere politico di Lukashenko. Ma non solo. Le due economie sono in fase di integrazione sempre più stretta, come dimostra la campagna acquisti di alcune importanti aziende bielorusse del settore chimico e manifatturiero da parte di gruppi industriali vicini al Cremlino. E, soprattutto, il fatto che alla fine Minsk abbia ceduto alla richiesta russa di esportare i prodotti derivati dalla raffinazione del petrolio e una importante quota di fertilizzanti attraverso il porto di Ust-Luga, nell’oblast di San Pietroburgo, invece che via Lettonia e Lituania.

Sul piano militare sono sempre più frequenti le esercitazioni congiunte (a settembre ne è prevista una macro, con focus sulla “guerra ibrida”), anche per mettere pressione su Kiev, come è emerso nelle ultime settimane, quando l’esercito di Minsk ha effettuato una serie di movimenti tattici all’interno del suo territorio in concomitanza con i movimenti di truppe russe al confine con l’Ucraina. Ma esiste anche una partnership strategica siglata proprio all’inizio di marzo dai rispettivi ministeri della difesa, che consente a Mosca di installare sul territorio bielorusso basi aeree e facilita l’invio di contingenti.

Si tenga presente che la Bielorussia non è solo uno stato cuscinetto ma anche un territorio fondamentale per il collegamento tra la Russia e l’enclave di Kaliningrad. Se Minsk entrasse in orbita occidentale, Kaliningrad resterebbe politicamente isolata e la minaccia militare nei confronti dei Paesi Baltici si ridurrebbe drasticamente. Anche se il peso geopolitico di Bielorussia e Ucraina non è nemmeno lontanamente paragonabile, è evidente che Mosca sta cercando di rendere accettabile all’interno il regime di Lukashenko, in modo da non perdere il controllo del Paese durante il periodo di transizione verso il nuovo assetto istituzionale. Per adesso si tratta di riforme annunciate, più cosmetiche che altro (in primis quella costituzionale, dai contorni ancora indefiniti), ma è sotto gli occhi di tutti che il Cremlino sta preparando la successione all’attuale uomo forte, che questa settimana ha denunciato un complotto internazionale per assassinarlo ordito da CIA e FBI.