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La Russia tra Cina e Occidente: Biden scommetterà sul dopo-Putin per allontanare Mosca da Pechino?

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Non è stato un anno semplice per Vladimir Putin. La morsa del coronavirus che non accenna ad allentarsi nonostante l’annuncio di un vaccino autoctono; la lunga ombra di Ankara sulle crisi internazionali in Libia e nel Caucaso; la tensione nei rapporti con la Germania e l’Ue seguita all’avvelenamento di Navalny; la rivoluzione civile bielorussa e le relative incertezze sul futuro del vicino stato-satellite. E infine, l’elezione di Biden, che in teoria non annuncia scenari di disgelo tra Mosca e Washington. Sullo sfondo, una riforma costituzionale che apre le porte a un prolungamento del mandato presidenziale, anche se le voci insistenti sulla salute del leader lasciano intravedere un esito differente da quello sperato (dai suoi sostenitori) o temuto (dai suoi detrattori). Speculazioni a parte, le probabilità che Putin sopravviva politicamente oltre il 2024 sono al momento abbastanza ridotte, tanto che quella che sembrava in un primo momento una trovata destinata a garantirne la continuità al potere assume oggi i caratteri di una lunga transizione verso una successione non priva di incognite. Più che la volontà del Cremlino di preparare un ricambio al vertice, sono state proprio le circostanze oggettive degli ultimi mesi a determinare un mutamento nella percezione del futuro prossimo della Russia: il ruolo secondario assunto da Putin nell’amministrazione della crisi sanitaria, un calo negli indici di popolarità, un’immagine sempre più compromessa fuori dai confini nazionali, le crescenti difficoltà nel gestire i conflitti regionali, un’economia in affanno sottosposta a sanzioni, sono chiari segnali di indebolimento della posizione del presidente russo.

Il ruolo di guida di Putin resta indiscutibile nella struttura istituzionale della Russia post-sovietica ma, come ho provato a spiegare in altre occasioni, non siamo di fronte a un’autocrazia di carattere personalistico fondata esclusivamente sulla volontà del sovrano assoluto. Lo stesso sistema di governo consolidatosi intorno alla sua figura è andato incontro a diverse trasformazioni nel corso di un ventennio: la Russia su cui Putin ha governato fino al 2010 era una società relativamente plurale, con spazi di partecipazione civile e politica ancora accettabili in comparazione con quelli delle democrazie liberali; anche l’atteggiamento di Mosca nell’ambito delle relazioni internazionali ha registrato un cambiamento decisivo nel secondo decennio putiniano, sterzando chiaramente verso una sindrome da accerchiamento dai tratti spesso paranoici, che ha condotto ad una politica aggressiva nei confronti dei Paesi vicini (Ucraina su tutti) e a uno scontro aperto con l’Occidente, sul piano geopolitico e persino su quello ideologico. In una recente intervista concessa all’emittente radiofonica Eco di Mosca, il politologo ed ex consigliere della presidenza Gleb Pavlovsky delineava due scenari possibili per i prossimi anni. Il primo vede un Putin arroccato al potere e un aumento della repressione interna, insomma la trasformazione della Russia in una dittatura classica. Il secondo, che Pavlosky considera il più probabile, contempla una progressiva riduzione del protagonismo presidenziale e una graduale separazione del sistema istituzionale dalla sua persona. La Russia post-putiniana conserverebbe l’eredità del putinismo ma imparerebbe a camminare da sola, e Putin non avrebbe alternative reali – svolta autoritaria a parte – a quella di agevolare questo processo di transizione già in corso sottotraccia nella società.

Conviene partire da qui per cercare di prevedere le prossime mosse dell’amministrazione Biden nei confronti di Mosca. È verosimile che, al di là di una retorica più spinta a favore del rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto, non assisteremo – almeno inizialmente – a grandi cambiamenti rispetto al quadrienno trumpiano. La sensazione è che, se formalmente la cooperazione con gli alleati europei sul caso russo si intensificherà, gli Stati Uniti manterranno una posizione attendista. La retorica bideniana che qualifica la Russia come “la più grande minaccia alla sicurezza americana” va letta nel contesto dei rapporti di forza sullo scenario internazionale: è la più grande minaccia tra quelle che Washington è in grado di gestire senza che derivi in un conflitto aperto, mentre la Cina dev’essere considerata un “concorrente” perché qualsiasi altra opzione porterebbe allo scontro frontale.

Probabilmente il fattore decisivo nella geopolitica dei prossimi anni sarà proprio l’evoluzione dell’ancora ambigua alleanza russo-cinese. Recentemente Putin ha ribadito che le relazioni tra i rispettivi apparati militari sono in continuo sviluppo ma si è guardato bene dall’estendere al piano politico le sue considerazioni. A dispetto delle teorie dei neo-eurasianisti, il Cremlino è cosciente che le grandi metropoli russe guardano all’Europa, non a Pechino. La scommessa dell’Occidente è che il declino del putinismo coincida con quello del nuovo nazionalismo russo, permettendo così l’auspicato riavvicinamento di Mosca all’Europa e la conseguente perdita di influenza di Pechino sul continente. Senza il ponte russo, ai cinesi non basterà la Nuova Via della Seta per proiettare la loro ombra sulle democrazie occidentali. Attendismo non significa immobilismo, secondo Dmitri Trenin, direttore del Carnegie Moscow Center:

“La visione personale di Biden è che la Russia, essenzialmente una cleptocrazia, è in un colossale declino; la sua economia monoprodotto non più competitiva; i suoi dati demografici in caduta libera; e anche il suo esercito è di seconda classe. Una cosa su cui Stati Uniti e Ue lavoreranno è limitare la Russia dal punto di vista geopolitico. A breve termine, ciò significherà più sanzioni congiunte e, per gli europei, un’ulteriore riduzione dei trasferimenti di tecnologia alla Russia”.

Insomma, proclami a parte, la politica delle sanzioni perseguita da Trump (accusato, nonostante le ripetute prove del contrario, di filo-putinismo) è destinata a proseguire, anche perché – osserva Fyodor Lukyanov – “le sanzioni stanno diventando una forma di regolazione economica in quest’epoca di nuovo protezionismo”. Osservazione quanto mai pertinente mentre è più viva e incerta che mai la grande partita del gas che Mosca sta giocando, di nuovo, sul doppio terreno europeo e asiatico, e che condizionerà inevitabilmente le strategie statunitensi nei mesi a venire. Il Nord Stream 2 è destinato ad essere completato nonostante le pressioni del Congresso americano, ma Biden ha altre frecce al suo arco sul suolo europeo. Le ambizioni della Polonia come futuro attore di rilievo nel mercato energetico continentale (nel 2022 scade il contratto di Varsavia con Gazprom) e la centralità dell’Ucraina come territorio di transito (centralità che proprio il Nord Stream 2 rischia di compromettere) sono elementi che potrebbero risultare decisivi in funzione anti-russa. Da qui la fretta di Mosca ma anche di Berlino, che non vede di buon occhio una diversificazione delle fonti energetiche promossa e gestita da Paesi dell’Est che gravitano nell’orbita statunitense. Ma attenzione, perché a complicare ulteriormente lo scenario c’è un progetto di cui poco si parla, nonostante la sua potenziale rilevanza: si chiama Power of Siberia 2, ed è un gasdotto che porterebbe il gas naturale dall’oriente russo a cinquecento chilometri da Pechino. Un bacino di utenza colossale, in grado di unire nei decenni a venire i due grandi vicini. Putin ha dato il via libera al progetto lo scorso marzo e i lavori dureranno a lungo. Ma la scommessa di una Russia con lo sguardo rivolto ad occidente o fagocitata dal gigante autoritario cinese passa anche da qui. Per capire la geopolitica dei prossimi anni bisognerà tenere a mente questa premessa: l’occidente (leggasi Stati Uniti) parlerà a Mosca affinché Pechino intenda.