La Lega ha rotto gli indugi e detto sì a Draghi – come in realtà si poteva facilmente intuire che avrebbe fatto fin dalle prime dichiarazioni di cauta apertura di Matteo Salvini (se non dalle diverse uscite di Giancarlo Giorgetti nei mesi scorsi).
Giorni fa avevamo indicato due motivi a nostro avviso sbagliati per un appoggio della Lega a Draghi: l’illusione di poter trattare elezioni anticipate a giugno o settembre di quest’anno; la ricerca di una legittimazione europeista. Sulla prima avevamo visto giusto, tant’è che questo argomento è subito caduto e la richiesta nemmeno è stata formulata, essendo del tutto irrealistica.
Il secondo rappresenta il rischio maggiore per la Lega, quello di cercare, o di subire, un processo di normalizzazione in senso europeista come avvenuto al Movimento 5 Stelle entrando nella cosiddetta “maggioranza Ursula” e dando vita al Conte 2 con il Pd. In parte ne abbiamo già parlato, ma ci torneremo anche oggi.
Ci sono buoni motivi che suggeriscono alla Lega di offrire il proprio sostegno al tentativo di Draghi? Sì, indubbiamente, e un paio sono già davanti agli occhi di tutti.
Tatticamente la mossa della Lega è stata ineccepibile. Come abbiamo visto, è bastata una disponibilità a valutare la proposta di Draghi per mandare in totale confusione il campo avversario, che ha cominciato – molto maldestramente – a porre condizioni e veti contraddicendo in modo palese l’appello del capo dello Stato, che aveva invitato tutte le forze politiche presenti in Parlamento a concedere la fiducia ad “un governo di alto profilo che non dovrà identificarsi in alcuna formula politica”. Il Pd, già pronto ad “appropriarsi” di Draghi, e non avendo messo in conto la compresenza leghista, si è trovato spiazzato. Ieri si è addirittura visto costretto a smentire le voci di un suo “appoggio esterno”, qualunque cosa significasse. Possiamo solo immaginare l'”inquietudine” del Colle…
Ma se c’è aria di veti da parte di Pd, Leu e 5 Stelle, allora la Lega fa bene a non concedere alibi: che si assumano Draghi e Mattarella la responsabilità di respingere o eventualmente accogliere quei veti. E, stando ai retroscena delle scorse ore, il presidente incaricato si è preso la responsabilità di respingerli.
Come già osservato su Atlantico Quotidiano dal professor Carinci, l’appoggio ad un governo Draghi sostenuto anche dalla Lega priva Pd e 5 Stelle della principale arma di delegittimazione brandita contro il segretario leghista e il suo partito, nonché principale collante dell’esperienza di governo giallo-rosso. Si ritroveranno al governo insieme all’avversario che hanno in tutti i modi cercato di disumanizzare, quello dei porti chiusi e degli odiosi decreti sicurezza, quello che hanno mandato a processo per sequestro di persona, un tale pericolo per la democrazia da dar vita ad un governo, il Conte 2, al solo scopo di impedirgli di vincere le elezioni e arrivare al governo. E ora, ci fanno un governo insieme. Un rospo non piccolo da ingoiare.
Ma è già partita in queste ore la contro-narrazione del Pd: non siamo noi ad andare al governo con i sovranisti, è la Lega ad essere diventata europeista.
Sarà compito della leadership leghista far capire ai suoi elettori di non aver rinunciato alla sua critica verso l’Ue, alla difesa della sovranità e dell’interesse nazionale, che certo però dovrà ora esprimersi in modi compatibili con la guida del presidente Draghi.
Il massimo risultato per la Lega sarebbe stato il rifiuto dei 5 Stelle a sostenere Draghi. A quel punto, avrebbe avuto la golden share del nuovo Esecutivo, il Pd si sarebbe ritrovato a fare da stampella, esposto sul suo fianco sinistro. Una situazione drammatica che avrebbe anche potuto indurre al ritiro dell’operazione per “mancanza delle condizioni”. Ma come prevedibile, alla fine i 5 Stelle – spinti dalle esigenze personali, per motivi diversi, di Grillo, Di Maio e Conte – si sono imbarcati e nessuna forza politica avrà un potere di ricatto definitivo. L’assetto più desiderabile per Draghi.
Qualcuno ha parlato di “contropiede” di Salvini, ma sarebbe sbagliato ridurre la mossa leghista ad un mero tatticismo per cercare di spiazzare l’avversario. In realtà, si tratta di una decisione in via di maturazione da tempo, da ben prima che Renzi aprisse la crisi, come aveva lasciato intendere Giorgetti mesi fa, arrivando ad augurarsi che Biden vincesse le elezioni.
Le motivazioni, dunque, sono anche di carattere strategico. La mossa leghista può essere letta come una manovra di interdizione contro il saldarsi di una futura “formula Ursula” tra Pd, Italia Viva, Forza Italia e l’ala più governativa ed europeista dei 5 Stelle (formula che comunque non è del tutto da escludere in futuro). Salvini recupera centralità politica e difende la sua leadership nel centrodestra, non lasciando a Berlusconi l’iniziativa nel futuro governo. Cercherà di entrare nelle partite per il successore di Mattarella e per la nuova legge elettorale. Nella gestione del Recovery Plan, e in generale nell’indirizzare la ripresa del Paese, rappresenterà le istanze del nord produttivo (dove governa in quasi tutte le regioni), che altrimenti si sarebbe potuto sentire tradito.
Tutte motivazioni sacrosante, a cui se ne aggiunge una di ancora più immediata comprensione: non c’è dubbio che in questa drammatica crisi il Paese sia in mani migliori con Draghi che con Conte e la sua maggioranza “venezuelana”.
Molto confortanti a questo proposito ci sono sembrate le parole di Salvini al termine della sua consultazione con il presidente incaricato, da dove è uscito rassicurato su quattro direttrici fondamentali per il Paese e per il centrodestra: sviluppo inteso come infrastrutture, impresa e lavoro (non assistenzialismo); no nuove tasse (Imu e patrimoniali); riapertura; atlantismo (stop alla deriva filo-cinese dei precedenti governi).
Chiaro, poi bisognerà vedere se in concreto il governo Draghi manterrà queste aspettative, ma si tratta per il momento di rassicurazioni molto importanti.
Va comunque notata e apprezzata la maturità con cui la Lega sta vivendo questo passaggio, in modo molto razionale, senza isterismi interni, in modo costruttivo anche da parte di coloro ai quali l’appoggio a Draghi risulta più faticoso da accettare.
Il problema è che tutti gli azionisti di questo nascituro governo riversano sul presidente incaricato le proprie aspettative. C’è chi, come i contraenti della ex maggioranza giallo-rossa, si illude di poter recitare lo stesso copione e chi, Forza Italia e Lega, si aspetta invece – giustamente – una netta discontinuità. Forze politiche dalle visioni anche agli antipodi vedono in Draghi ciò che vogliono vedere. È evidente, tanto più che l’ex presidente Bce è difficilmente condizionabile, che qualcuno sta mentendo a se stesso, o sta prendendo una cantonata e resterà bruciato.
Non sappiamo chi. Ma il fatto che questa legislatura sia stata plasmata da un’affermazione, sebbene incompleta e contraddittoria, di forze populiste ed euroscettiche e possa concludersi invece con il suo opposto, un rappresentante delle élites, incarnazione del progetto unionista europeo, a Palazzo Chigi, dovrebbe far riflettere. Delle due l’una: o la rivolta contro il “sistema” (sia il sistema-Italia che il sistema-Ue) è stata neutralizzata cooptando le forze che la rappresentavano e smorzandone la spinta “rivoluzionaria”; oppure, è stata finalmente incanalata per dare risposta alle istanze che l’hanno generata.
Se è vera la prima ipotesi, prima o poi bisognerà riconoscere che si possono cooptare e neutralizzare partiti e movimenti, rinviando il problema alle elezioni successive, ma non si possono ingannare a lungo gli elettori, lasciando che monti la rabbia e la disillusione, e al tempo stesso preservare le istituzioni democratiche. Se ancora crediamo nel governo fondato sul consenso dei governati, questo non può essere ritenuto un fastidioso dettaglio da aggirare alla chiusura delle urne, per quanto buone giuste e “competenti” possano essere le ricette politiche ed economiche che si intendono mettere in pratica.
Non è un mistero che per almeno una parte della Lega questa sia anche l’occasione per un’operazione di accredimento sia interno che internazionale che dovrebbe permettere di spalancargli le porte di Palazzo Chigi, di far venire meno una sorta di conventio ad excludendum nei suoi confronti. Anche se si vincono le elezioni, non si governa “contro” l’establishment e i principali partner internazionali dell’Italia, ha ripetuto Giorgetti.
Sebbene anche intellettuali di area di centrodestra abbiano sposato la narrazione del trucismo di Salvini (come scrive Cerasa, “una grande occasione per la destra: immergersi nel governo istituzionale per archiviare la stagione dell’impresentabilità”), a nostro avviso invece la Lega di Salvini è stata sempre percepita dall’elettorato, in gran parte il ceto produttivo del nord, come forza di governo. Per essere chiari, né Matteo Salvini né Giorgia Meloni hanno bisogno della “lavatrice Draghi” per ripulirsi o farsi perdonare alcunché della loro storia politica, come fossero beceri estremisti da sdoganare. Piacciano o meno, le loro posizioni sono sempre state quelle legittime di una destra democratica, nazionale ed europea (attenzione: ben diverso da europeista), per altro comuni a tutte le destre dei nostri giorni, a cominciare dal tema dell’immigrazione.
Semmai, è il campo di ciò che ci viene presentato come politicamente rispettabile da chi controlla la narrazione e le istituzioni in Italia ad essersi ristretto negli ultimi anni. C’è senz’altro una conventio ad excludendum non soltanto nei confronti degli “anti-europeisti”, ma persino di chiunque osi disturbare i manovratori, di chiunque sostenga un’altra idea di Europa, foss’anche l’idea thatcheriana di “meno Europa” (dove meno fa rima con meglio). Basti pensare a Berlusconi, né anti-europeista né No Euro, pienamente inserito nel PPE: appena nel 2011 ha toccato i fili (su fondo salva-Stati e Libia) è rimasto fulminato.
Se la Lega in questi anni si è mossa male dando l’impressione di voler o poter distruggere tutto e tutti, allora si tratta di un’operazione di comunicazione, di public relations, di spiegare meglio la propria idea di Italia e di Europa. Se, invece, ci troviamo di fronte ad un sistema bloccato (dall’interno e dall’esterno), in cui è di fatto, non di diritto, impedita una fisiologica alternanza di governo, allora l’unico accreditamento possibile è l’abiura. Ma come abbiamo già spiegato, non è comunque garanzia di arrivare al governo del Paese, perché laddove arrivino “rispettabilità” e riallineamento, potrebbero venir meno i voti…
Molte risposte a queste domande dipenderanno da cosa in concreto verrà a fare Draghi. Su Atlantico Quotidiano ci siamo già interrogati sulle intenzioni dell’ex presidente Bce, su cosa pensa dei problemi dell’Ue e dell’Eurozona, e continueremo a farlo nelle prossime ore e giorni.
Che Draghi sia molto diverso da Monti, non c’è alcun dubbio. Per background, per pensiero economico, per ambienti e culture di riferimento. E non c’è dubbio che anche il contesto sia molto diverso da quello del 2011-2012. Da qui però desumere che Draghi venga “per spendere”, al contrario di Monti, solo perché ci sono i soldi del Recovery Fund da distribuire e il Patto di Stabilità è sospeso, ci pare un’osservazione non solo molto parziale e superficiale, ma anche molto preoccupante se viene da settori e personalità del centrodestra.
Primo, perché vuol dire che nemmeno nel centrodestra si ragiona più in termini alternativi tra meno tasse e più spesa pubblica, ma tra spendere bene o spendere male (e chi mai vorrebbe spendere male?). Non ci si illude nemmeno più che si possano ridurre le tasse e il peso dello Stato, ci si accontenta di potersi affidare alle cure di chi dice di fare spesa “buona”, debito “buono”. Una resa culturale prima che politica. Certo, se si deve spendere, meglio che a spendere sia Draghi piuttosto che Conte e Gualtieri. Ma una delle più invalidanti distorsioni indotte da Bruxelles, ancora poco comprese, è proprio quella di concedere qualche volta la grazia di sgarrare, ma solo per spendere, mai per tagliare le tasse.
Secondo, perché vuol dire che purtroppo, nonostante la diffidenza nei confronti dell’Ue, anche nel centrodestra si è finiti per credere al mito salvifico del Recovery Fund, che più volte qui su Atlantico Quotidiano abbiamo provato a smontare.
Non è che una grande partita di giro su cui è stata alimentata nell’opinione pubblica e negli operatori economici una aspettativa enorme, che si tramuterà in disillusione e rabbia; una gigantesca operazione per aumentare il potere di intermediazione della spesa pubblica da parte di Bruxelles e uno spot per migliorarne l’immagine.
Si tratta per i 2/3 di prestiti, debito che contrarremo con Bruxelles anziché con i mercati per finanziare spese che avevamo già in programma, e per 1/3 di contributi a fondo perduto, anch’essi finanziati con l’emissione di bond europei, somme che dovremo contribuire e restituire agli investitori entro il 2058 attraverso l’aumento delle “risorse proprie” dell’Ue e l’introduzione di nuove “eurotasse” riscosse a livello nazionale. Non è un pasto gratis, insomma, non potranno essere usati per tagliare le tasse, non verranno usati per indennizzare le attività economiche danneggiate dai lockdown, ma per finanziare investimenti in gran parte ideologicamente motivati. Inoltre, il programma deve ancora passare un lungo processo di ratifiche nazionali, solo una minima parte dei fondi verrà erogata nel 2021, mentre la parte restante è condizionata al raggiungimento degli obiettivi e all’attuazione delle riforme concordate con la Commissione Ue. Per questo, tempo fa su Atlantico lo definimmo il Recovery-Mes.
Allora è evidente che il Recovery Fund non è solo soldi da spendere, ma anche e soprattutto somme da versare, condizioni da soddisfare, riforme da attuare e nuove tasse da riscuotere. D’altra parte, da presidente della Bce Draghi ha sempre esortato i governi a fare le “riforme strutturali”, avvertendo che da sola la politica monetaria non poteva risolvere i problemi dell’Eurozona.
Con un debito che a causa della pandemia viaggia verso il 160 per cento del Pil, non è il Recovery Fund che può tenerci in piedi e farci rialzare, ma la Bce con il suo Quantitative Easing (QE), cui Berlino vorrebbe porre fine prima possibile, non oltre l’emergenza sanitaria. Dunque, l’asset Draghi per l’Italia non sta tanto nel compitino del Recovery Plan che manderà a Bruxelles, ma nella sua idea di Bce e nella sua autorevolezza nel trattare con Berlino e Parigi.
La domanda a cui dare risposta, dunque, è cosa viene a fare Draghi, non tanto in relazione alla gestione del Recovery Plan. Se viene a fare riforme, e quali, e cosa intende fare quando – molto presto – i tedeschi vorranno mettere la parola fine sul QE. Ci torneremo già nelle prossime ore…