“Tutto il governo è unito per raggiungere l’obiettivo. Ci sono gli uffici scolastici regionali, i dirigenti delle nostre scuole, gli enti locali, le organizzazioni sindacali”.
Questo è uno stralcio dell’ultimo discorso del ministro Lucia Azzolina. Questa frase riafferma il solito centralismo statalista della scuola italiana, strutturato gerarchicamente prima nel 1926 da Giovanni Gentile (la più fascista delle riforme) e poi da Giovanni Berlinguer nel 2000, che ha irrigidito, come se non bastasse, la struttura piramidale e gerarchica delle istituzioni educative nostrane. Gli enti che decidono sono quasi tutti parte dello Stato centrale: il governo, gli uffici scolastici, che sono regionali solamente in quanto dislocati nella Regione ma dipendono direttamente da Roma, e i dirigenti scolastici, anch’essi mere “cinghie di trasmissione” del Ministero della pubblica istruzione. Gli enti locali sono “Stato decentrato” ma sempre organismi pubblici che spesso hanno perso totalmente il contatto con la base popolare che li ha eletti. Grandi assenti sono anzitutto gli insegnanti, relegati sempre di più a meri esecutori di decisioni adottate nelle diverse “stanze dei bottoni” e, naturalmente, anche i genitori: gli studenti poi vengono considerati essenzialmente come “utenti” necessari per piazzare posti di lavoro. La questione principale per l’Azzolina sembra sia la sistemazione di una pletora di docenti rimasti ancora nel limbo della precarietà, a prescindere dalla loro effettiva competenza e preparazione. I numeri “sparati” (“daremo posto a 78.000 insegnanti”) e le dichiarazioni sulle classi ridotte o sui banchi individuali e distanziati appaiono molto di più come intenzioni programmatiche (“abbiamo previsto 2,9 miliardi per far ripartire la scuola a settembre”) che non come reali obiettivi che ci si rende conto veramente come conseguire. È la linea del Governo Conte, che fa credere certi ed immediati i “buoni propositi” annunciati nelle conferenze televisive!
La mia esperienza personale di insegnante (di diritto ed economia) in una scuola superiore di Milano è quella comune a tutti i docenti della zona in questione: sono venuto a sapere dai giornali, il 23 febbraio, che saremmo rimasti a casa per una settimana, quella di carnevale, e mi sono anche sentito dire da Giuseppe Sala che “tanto in quella settimana non si fa niente” e che quindi non potevo che essere contento di ciò. Poi siamo rimasti a casa a “ondate” (sempre venendolo a sapere dai giornali, prima che dalla scuola). Dopodiché, dopo un certo tempo, ci è stato comunicato che avremmo dovuto fare la cosiddetta “DAD”, la didattica a distanza, della quale nessuno ci aveva mai parlato né tanto meno spiegato come attuare.
Ho notato che tutti mi chiedevano in continuazione se facessi lezione a distanza e ho avuto l’impressione che questo fosse il criterio per vedere se ero “obbediente” alle indicazioni governative. Ho avvertito che la maggior parte della gente considerava la DAD come un modo intelligente per far lavorare gli insegnanti, notoriamente lavativi. Applicando il consueto metodo del “fai da te”, in qualche maniera sono poi entrato in questo “mondo virtuale” delle lezioni a distanza, parlando ad una serie di video spenti, dai quali vedevo immagini di ogni tipo (motorini, biciclette, segni zodiacali, spesso solo una lettera) e di microfoni anch’essi spenti (in questo caso con la giustificazione di voler evitare interferenze). Ho dovuto lottare aspramente per vedere le facce degli studenti che volevo interrogare e ancor più aspramente con i genitori che si sostituivano totalmente al loro figlio nello svolgimento di esercizi a casa (per non parlare di quanti suggerivano direttamente al figlio sostenendo che “il video era rotto”). Alla fine della scuola poi ho dovuto, come gli altri docenti, ammettere tutti gli studenti, anche con dieci-undici insufficienze gravissime, perché questa era la volontà dell’Azzolina (o di chi le dà le indicazioni operative, in quanto mi sembra difficilmente credibile che la suddetta abbia un’esperienza ed un pensiero autonomo). Notare che non ho potuto neanche fare l’appello, durante le lezioni a distanza, perché non avevano valore legale.
Insomma, ci hanno imposto di svolgere un’attività didattica in qualche modo per far vedere che facevamo qualcosa durante la quarantena. A parte il discorso sulle ore realmente svolte, che non è paragonabile a quello della scuola “in presenza”, l’utilità della DAD mi è risultata essere molto relativa, perché l’attenzione e la concentrazione degli studenti era assai minore di quella “normale”. È stato, in buona sostanza, uno “specchietto per le allodole” che il governo ha utilizzato per dire che si preoccupava di affrontare la situazione di emergenza (e per evitare di cercare soluzioni alternative che prevedessero il ritorno in aula). Il vero problema, che non credo sfiori quella “mente” dell’Azzolina, non sono stati tanto gli studenti di quinta, i quali anche in tempi non sospetti venivano promossi al 99,9 per cento, bensì tutti gli altri: quelli delle prime, seconde, terze e quarte! Te vojo a riprendere i ragazzi (che non sprizzano sicuramente di voglia di impegnarsi) ammessi comunque alla classe successiva anche con uno sfracello di insufficienze, e a convincerli di studiare!