Sì, questo è un grido d’allarme. Fra breve non avremo più un solo millimetro di pelle (o di vestiario) per appiccicarvi su le etichette che ci vengono imposte. Non basta più essere persone perbene, che perlomeno ce la mettono tutta per non infrangere la legge, che credono nelle regole della vita civile, che addirittura s’impegnano mettendoci del proprio per fare qualcosa di buono, oltre che per sé, pure per gli altri. Non basta. Ci vogliono le certificazioni e, se si vive di lavoro autonomo, sono necessarie quelle di idoneità ai più disparati e spesso astrusi criteri di correttezza e liceità. Fare impresa oggi, rinunciando al gradito stipendio, alle ferie, alla mutua e, soprattutto, a quella sorta di presunzione di correttezza fiscale che ammanta i lavoratori dipendenti di una vera e propria aura di presunta onestà è sempre più difficile. Non soltanto chi porta a casa la pagnotta in quanto imprenditore, magari anche solo di se stesso, sarà un presunto bieco evasore, cosa che già farebbe orrore in un Paese che si definisca libero e civile, ma non basta certo dimostrare in continuazione di non essere un malfattore, con un’innaturale inversione dell’onere della prova (onus probandi incumbit ei qui dicit) per cui, semmai, dovrebbe essere il fisco a provare che il contribuente abbia frodato e non quest’ultimo a fornire costante e ripetuta prova di non averlo fatto.
Se ciò non bastasse, al malcapitato imprenditore si richiede sempre più di certificare la propria idoneità a svolgere il proprio lavoro, e non rileva minimamente se questi lo eserciti da decenni, siamo diventati tutti pasticcioni incapaci. Sulle tracce delle ormai lontane prime certificazioni di qualità (le varie Normative UNI_ ISO 9000 e seguenti, introdotte negli anni ’90 del secolo scorso), le quali, peraltro, non costituivano un obbligo in senso stretto, ma un quid pluris per dimostrare che la propria azienda rispettava elevati livelli qualitativi in tutta la filiera della sua produzione di beni o servizi, il nostro sistema commerciale e socio-economico si è via via spinto oltre, fino a giungere ad un completo rovesciamento della situazione standard di riferimento. Se la certificazione di qualità (inizialmente appetibile soltanto per le grandi aziende) era l’eccezione alla regola nel vastissimo campo delle aziende non certificate, adesso accade esattamente il contrario, laddove in assenza di sempre nuove certificazioni non soltanto non si va lontano, ma nemmeno si partecipa alle gare ed ai bandi pubblici che di tali attestazioni fanno, quantomeno di fatto, il primo presupposto di ammissibilità al concorso. Sappiamo anche che l’agognata certificazione non sempre è del tutto veritiera, perlomeno da noi, perché, si sa, siamo maestri nell’arte dell’arrangiarci e la moltiplicazione degli enti accertatori degli ultimi anni non sempre si è accompagnata da un altrettanto crescente rigore nelle verifiche e, di conseguenza, la circostanza di possedere più certificazioni di qualità ha perso gran parte del suo valore iniziale, anche perché non infrequentemente pure il modesto artigiano muratore che lavora con un apprendista ne possiede almeno una.
Fosse soltanto ristretto al settore qualità, e non già ad ogni campo dello scibile, il problema avrebbe dimensioni minori e non riguarderebbe la vita di tutti noi, quale che sia la nostra occupazione ed anche quando di un’occupazione, purtroppo, non se n’abbia nemmeno una. Non c’è oggi benedetta (?) norma di legge che non preveda e non ci imponga la c.d. accountability a qualche schema di comportamento, con un crescente controllo statuale che rischia di diventare sempre più odioso e limitativo. Non facciamo tempo a nascere che già ci viene imposto il codice fiscale, la carta d’identità ed una bella serie di vaccinazioni (quindici in Italia) per poter addirittura essere ammessi all’asilo nido e, crescendo, le cose peggiorano, man mano che aumentano i certificati da portare con sé, fino ad arrivare all’assurdo di alcune amministrazioni comunali di sinistra che volevano introdurre l’assurda autocertificazione di “antifascismo” per poter beneficiare dei servizi pubblici cittadini. Esagerazioni a parte, ciò che maggiormente lascia perplessi (non mi farete dire “perplime” manco sotto tortura) è il metodo generale, il sistema prescelto per classificare i cittadini in ampie categorie di correttezza e responsabilità, anche attraverso l’abusato sistema dell’autocertificazione (ossia la più colossale congerie di falsi e menzogne che mai si sia vista in Italia) per cui i nostri decisori, invece che darsi molto da fare per migliorare il Paese, in pratica, sempre più ci spingono ad esibire l’etichetta giusta per ogni bisogna. Per fare un esempio pratico, anche un colossale sporcaccione che gestisca un bar o ristorante in condizioni igienico sanitarie inaccettabili, con grave pericolo per i suoi avventori, in sostanza, qualora esibisca l’autocertificazione HACCP (Hazard Analysis and Critical Control Points) avrà in gran parte superato senza troppi danni l’eventuale controllo da parte degli organi accertatori in materia, con una sanzione che arriva ai 9.000 euro in caso di mancata ottemperanza al regime di auto-controllo, mentre la sanzione prevista dalla vigente normativa in caso di condizioni igienico-sanitarie gravemente insufficienti prevede una pena edittale massima di euro 3.000. Se esistesse ancora il buonsenso ciò non dovrebbe accadere. È soltanto un esempio pratico, tanto per non parlare sempre e solo dei massimi sistemi, ma rende efficacemente l’idea.
L’importante parrebbe essere avere sempre la giusta certificazione da esibire, come le ridicole autocertificazioni del recente periodo di lockdown con le quali dovevamo mettere nero su bianco, a pena di pesantissime sanzioni, se la persona che s’intendeva andare a visitare fosse o meno nostra parente fino al terzo grado oppure legata da rapporti sentimentali stabili. Tutto ciò avviene, peraltro, in una nazione ove è possibile autocertificare l’eventuale presenza di precedenti penali o procedimenti penali in corso, una nazione ove sulla patente non è più riportato (per la privacy) il nostro indirizzo di residenza e sulla carta d’identità non viene più riportato lo stato civile (ma per averne una nuova ci prendono le impronte digitali). Sul discorso privacy se ne potrebbe dire (e magari se ne dirà in altra occasione) a fiumi, ma ciò che pare degno spunto di riflessione è l’argomento generale delle certificazioni, sul quale sorgono molte domande che non trovano risposte soddisfacenti. Per adesso, anche se non so per quanto ancora, il processo alle intenzioni non è ancora ammesso; di conseguenza non processerò quelle del legislatore, che speriamo abbia ancora ben chiaro l’obiettivo sociale da perseguire, ma di sicuro tutte queste certificazioni, tutta questa produzione immensa di dichiarazioni di conformità a questo o a quello mi spaventa, e non poco.
Devo essere sincero: preferirei uno Stato che ci chieda meno e ci dia di più, e non parlo soltanto di sostegno economico in momenti di enorme crisi delle nostre famiglie. Mi piacerebbe vivere in una nazione ove la nostra accountability alle buone pratiche sociali sia favorita dallo Stato, senza doverci imporre la frequenza a corsi specifici e relativi aggiornamenti spesso inutili, una nazione ove i suoi abitanti non facciano fatica a stare al passo con le sempre nuove certificazioni richiesteci, ma nella quale si permetta di lavorare in santa pace, dando ciascuno il nostro contributo anche e soprattutto se messi in grado di farlo, senza stroncare il futuro e la possibilità di produrre reddito perché, magari, manca un certificato costoso e difficile da ottenere. Di quello, principalmente, avremmo grande bisogno tutti: produrre reddito. Senza reddito non soltanto non si mangia, non si fanno figli, non si assumono dipendenti, ma nemmeno si pagano le tasse.