Sembrava una proposta buttata là quella di Biden circa una Santa Alleanza delle democrazie, che sottintendeva chiaramente che, solo dopo la caduta dell’autocrate Trump, gli Usa, ripuliti e risanati, avrebbero potuto tornare ad essere la guida per antonomasia di quella creatura figlia della civiltà occidentale, la democrazia, basata sulla elezione universale di una o più Camere di rappresentanti, con una dialettica garantita fra maggioranza ed opposizione. Una definizione minimale, ma declinata in maniera diversa, tanto da presentare differenze sostanziali, come risulta da una semplice comparazione fra Usa e Italia: ciò che là è considerato pienamente legittimo, qui verrebbe giudicato tale da minare non solo il testo costituzionale, ma lo stesso sistema democratico.
Come si è visto, negli Usa, per l’elezione del presidente è contemplato il voto per corrispondenza, contestato dal presidente uscente, per questo condannato ed esecrato al di là e al di qua dell’Atlantico, ma non mi pare che nessuno abbia fatto presente che tale voto, riadattato all’Italia, sarebbe da considerare in contrasto con l’art. 48, comma 2 della Costituzione. Questo comma, nel sancire che il voto deve essere “libero e segreto”, lo considera un requisito essenziale, ma un voto postale non è idoneo di per sé di garantire né la libertà né la segretezza, dato che non ci dice nulla di come sia stato espresso.
A sua volta, sempre negli Usa, non solo non c’è alcun organo di autogoverno della magistratura, i giudici federali sono scelti dal presidente e ratificati dal Senato, a cominciare da quelli della Corte Suprema, ma soprattutto c’è una netta cesura fra la funzione giudicante ed inquirente, quest’ultima riservata ad una avvocatura speciale eletta, che la esercita senza alcuna obbligatorietà. Una disciplina, questa, in plateale contrasto con gli artt. 104 e 105 della Costituzione sulla magistratura come “organo autonomo e indipendente da ogni altro potere”, capace di autogestirsi tramite un Consiglio superiore, ma anche cogli artt. 106 e 112 sulla identità di selezione e di status fra giudici e procuratori, quest’ultimi vincolati all’esercizio dell’azione penale; tanto da far dubitare qui da noi che un sistema privo di queste garanzie possa veramente considerarsi uno stato di diritto.
Una volta che, per reciproco riconoscimento, gli Usa e i Paesi europei si siano detti democratici al cento per cento, il lavoro selettivo sembrerebbe appena cominciato, sempre che non si dia per scontato che la Santa Alleanza delle democrazie, per quanto teoricamente aperta, debba coprire solo una relazione privilegiata fra Usa e Ue più la Gran Bretagna, una sorta di Nato politica. Come la Nato, una alleanza difensiva, finalizzata a garantirsi reciprocamente la tenuta democratica nei rispettivi Paesi, contro la destabilizzazione da parte di movimenti populisti, con la minaccia esplicita di isolare quei Paesi che cadessero in una tale trappola, cosa che dovrebbe servire ad esorcizzare preventivamente qualsiasi tentazione in proposito. Al riguardo mi piace ricordare quanto osservato recentemente da Carlo De Benedetti, certo addentro alle segrete cose, che se mai Salvini e company riuscissero a vincere le elezioni, la Ue li farebbe cadere nell’espace d’un matin, sotto intendendo una regia da parte della Germania. Osservazione che suona a conferma della precedente decapitazione di Berlusconi, che però non era un populista, ma solo non gradito nel suo tentativo di dare un profilo più significativo al nostro Paese nel consesso europeo.
Per cui in questa Santa Alleanza, a parafrasi della famosa scritta della Fattoria degli animali, tutte le democrazie sono uguali, ma alcune sono più uguali di altre, quindi legittimate a esercitare una qual sorta di custodia cautelare rispetto a quelle più deboli ed incerte, che, come tali, non sarebbero in grado di tollerare una alternanza fra le forze in campo, secondo una riedizione della conventio ad excludendum nei confronti non solo dei partiti populisti ma anche genericamente conservatori. Invero, all’interno di questa Santa Alleanza, si collocherebbe l’altra iniziativa attribuita sempre a Biden, cioè la convergenza unitaria delle forze democratiche e progressiste, espressione coniata dal nostro Pd, tale da comportare una ulteriore distinzione tra le forze solo democratiche, di per sé non sufficienti neppure a garantire una democrazia sostanziale, e quelle democratiche e progressiste, cioè di sinistra. Così dovrebbero restar fuori i conservatori, tant’è che per La Repubblica l’interlocutore ideale di Biden non era il premier britannico ma il leader dei laburisti, senza tener conto che lo stesso Biden deve essere considerato un moderato, tanto da avere una robusta ala radicale, che è riuscito a tenere a debita distanza, ieri, nella campagna elettorale e, oggi, nella formazione della sua squadra.
Dietro la finalità difensiva, tutta ripiegata sulla politica interna, se ne può ritrovare una offensiva, tutta proiettata sulla politica estera: l’esportazione della democrazia, dando per scontato che quella nostra, figlia di una peculiare storia secolare, possa essere imposta a forza là dove non ne esistono le premesse culturali, sociali, economiche. Esportarla come, con i boicottaggi economici, con gli aiuti a movimenti di opposizione spesso ambigui, con colpi di Stato, con le cannoniere? Anche nella forma meno cruda, quella dei boicottaggi, la pressione esige una convergenza partecipata in politica estera, che l’esperienza ci dimostra essere già difficilmente praticabile a livello di semplici dichiarazioni di principio che lasciano il tempo che trovano, mentre a giocare restano gli interessi nazionali, coltivati apertamente dai Paesi in grado di farli valere in virtù di una effettiva e credibile capacità di intervento. Altrimenti si deve fare come l’Italia, sempre pronta a cedere al ricatto sia di denaro che di onore, come da ultimo il viaggio di Conte e Di Maio a Bengasi, un atto d’omaggio ad un dittatore misconosciuto a livello internazionale, a cominciare dal nostro stesso Paese, con a buon precedente il verboso ma inconcludente pressing sull’Egitto per il caso Regeni.
Tale convergenza partecipata dovrebbe valere in tutte le organizzazioni internazionali, a cominciare dall’Onu, dando per scontato che i detentori del potere di veto, Usa, Francia e Gran Bretagna, siano disposti a esercitarlo come fosse un mandato dei Paesi partecipanti alla Alleanza. Solo che tutto questo comporterebbe il contro-effetto dell’isolamento, in chiave di un ormai anacronistico euro-centrismo, sempre che per evitarlo, l’ingresso sia tanto annacquato da non escludere quasi nessuno. Che dire della Russia, della Cina, del Brasile, della gran parte delle nazioni musulmane… oggi non è dato più scegliere chi si siederà dall’altra parte del tavolo, prendendo come misura una forma di organizzazione interna di governo, essendo già molto difficile porre come condizione il rispetto dei fondamentali diritti umani.
La sinistra aspetta sempre un messia, che dovrebbe fare quel che è ormai totalmente incapace di realizzare, una aggregazione egemone, condannata così ad una reiterata disillusione. Non c’è una mitica terza via, tanto meno se solo indicata per esclusione rispetto al capitalismo e al comunismo, purtroppo la democrazia, quando c’è, è donzella capricciosa, a caratterizzarla assai più di una linea diritta, è una linea tortuosa, perché la gente tende sempre ad oscillare fra nostalgia del passato e voglia di futuro, tant’è che le sole forze c.d. progressiste non sono affatto in grado di rappresentarla in toto, a meno che non ne fuoriescano con la rivendica di essere le sole legittimate a governare.