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La sinistra si consegna a Fedez: libertà d’espressione a senso unico, grida alla censura mentre la applica ai nemici

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Altro che censura, la dirigente Rai interviene dando di fatto il via libera all’attacco di Fedez alla Lega. Il ddl Zan non aggiunge nulla ai diritti degli omosessuali, è un pericoloso attacco alla libertà d’espressione, in un’epoca in cui idee e opere artistiche vengono censurate e bandite in nome della “identity politics” e della Cancel Culture. Una volta c’erano gli artisti allineati ai partiti di sinistra, oggi i partiti di sinistra si allineano ad artisti e influencer

Difficile ricordare una polemica così paradossale e piena di cortocircuiti come quella sul monologo di Fedez al concertone del Primo Maggio trasmesso sabato da Raitre. Al contrario delle apparenze, il ‘caso Fedez’ non c’entra, se non marginalmente, con la libertà d’espressione, e l’oggetto del contendere, lo spunto per il suo monologo, la proposta di legge Zan, solo marginalmente riguarda e sanziona l’omofobia, mentre a ben vedere tocca proprio la libertà d’espressione. E altro che censura, l’unica dirigente Rai a parlare con Fedez nella telefonata incriminata ha dato di fatto il via libera all’attacco del cantante alla Lega.

Ma cerchiamo di districarci tra i diversi piani di lettura e le diverse strumentalizzazioni.

Il piano “mediatico”. La libertà d’espressione dell’artista non c’entra nulla con quanto accaduto e denunciato da Fedez. E come vedremo c’entra solo marginalmente la Rai, che però non a caso finisce puntualmente al centro delle stesse polemiche. Qui il tema non è la libertà d’espressione, perché ciò che si rimprovera alla Rai non è che Fedez o altri esprimano il proprio pensiero, ma la faziosità e l’assenza di contraddittorio dei contesti in cui viene permesso loro di farlo, mettendo di fatto il “servizio pubblico” al servizio di una parte politica, sempre la stessa.

Accade troppo spesso che spettacoli e manifestazioni di carattere culturale e artistico finiscano per diventare tribune per comizi politici o prediche moralisteggianti dell’artista del momento, che a volte finiscono per oscurare l’evento stesso, aggirando quel minimo di contraddittorio che anche i faziosi talk show e infotainment della Rai sono chiamati a garantire.

Questo è il punto: mentre un editore privato può essere fazioso quanto vuole (nei programmi e nei momenti che non ricadono sotto la legge “par condicio”), essendo la Rai una tv pubblica, pagata con i soldi di tutti i contribuenti, dei più disparati orientamenti politici e culturali, ci si aspetta che non sia mai consentito un uso fazioso del servizio pubblico.

Ma c’è un altro “equivoco” in questa vicenda, alimentato ad arte da Fedez per passare da vittima di una censura Rai. Grazie al quotidiano Domani, conosciamo meglio com’è organizzato il concertone del Primo Maggio. La Rai paga una somma che si aggira intorno ai 500 mila euro per i diritti di trasmissione dell’evento. Ma la scelta dei contenuti del concerto, da quando è stato costituito il Consorzio Primo Maggio, è di un direttore artistico: quest’anno Massimo Bonelli, ceo della società iCompany, che si occupa dell’organizzazione dello spettacolo dal 2015. Se quello denunciato da Fedez fosse stato un tentativo di censura, sarebbe da imputare alla società iCompany, non alla Rai. E lo si evince anche dall’integrale della telefonata diffusa dal cantante come prova delle pressioni ricevute.

A pronunciare l’infelice espressione “adeguarsi al sistema”, a cui Fedez si è attaccato per passare da vittima di censura, è Massimo Cinque, capo progetto di iCompany, così come è della società produttrice la richiesta di visione preventiva del testo che il rapper avrebbe letto sul palco, mentre l’unico dirigente Rai a parlare con il cantante, la vicedirettrice di Raitre Ilaria Capitani, interviene proprio per evitare che si potesse accusare l’azienda di Viale Mazzini di volerlo censurare. Ma questa parte della conversazione l’astuto Fedez l’ha tagliata dal video che ha diffuso sui social:

“La Rai non ha proprio alcuna censura da fare. Nel senso che… la Rai fa un acquisto di diritti e ripresa, quindi la Rai non è responsabile né della sua presenza, ci mancherebbe altro, né di quello che lei dirà […]”. “Ci tengo a sottolinearle che la Rai non ha assolutamente una censura, ok? Non è questo […] Dopodiché io ritengo inopportuno il contesto, ma questa è una cosa sua”.

Dunque, non solo il furbetto Fedez ha registrato e divulgato a milioni di persone una telefonata privata senza il consenso degli interlocutori – già di per sé una condotta discutibile anche sotto il profilo legale – ma ha anche tagliuzzato il suo video, evidentemente premeditato, in modo che il tentativo di censura apparisse opera dei dirigenti Rai e non, semmai, di iCompany. Ma capite bene che un conto è passare da vittima di una censura Rai, altra cosa della iCompany

Insomma, paradosso nel paradosso: in tutta questa vicenda, alla fine, l’unico censore è proprio la presunta vittima della quasi-censura.

L’accusa di Fedez alla Rai, almeno da ciò che si evince dalla telefonata diffusa, appare quindi infondata. Ciò che rimproveriamo alla Capitani e ai dirigenti Rai è, al contrario, di non aver fatto tutto il possibile per impedirgli di approfittare dei mezzi del servizio pubblico per un attacco politico e personale senza contraddittorio.

In questo caso, inoltre, la presunta censura si sarebbe consumata tutta a sinistra: di sinistra il cantante censurato, di sinistra i presunti censori. Ma se il monologo preparato da Fedez era apparso inopportuno non a qualche cattivone leghista o fascistone meloniano, ma agli stessi organizzatori (non certo di destra) del concertone e ai dirigenti Rai in quota Pd, forse qualche domanda dovrebbe porsela.

È pieno diritto degli organizzatori, se ci sono monologhi dei cantanti che esulano il contenuto “artistico” della loro esibizione, conoscerne i testi, se non altro per tutelarsi da possibili azioni legali. Questo è “il sistema”…

Non è inusuale in questo genere di eventi che gli artisti vogliano esprimere una loro vicinanza ad una causa politica o sociale, sostenerla con una t-shirt, una canzone, o anche una battuta, uno slogan. Ma ciò che ha fatto Fedez è quantitativamente e qualitativamente molto diverso, tanto da essere giudicato inopportuno da dirigenti a lui politicamente affini. Non si è limitato a dichiarare e motivare il suo sostegno al ddl Zan, si è scagliato contro un partito, contro alcuni esponenti politici citati per nome e cognome, senza contraddittorio, senza che nessuno di questi potesse replicare di fronte allo stesso pubblico a cui si stava rivolgendo. Particolarmente violento, populista, e fuori tema, l’attacco a Roberto Formigoni sul reintegro del “vitalizio” (che poi vitalizio non è, ma trattamento previdenziale), inattaccabile in punta di diritto.

C’è una differenza sostanziale tra i social e uno spettacolo trasmesso dalla Rai. Su Twitter Fedez raggiunge un pubblico “suo”, i suoi follower, un seguito raccolto grazie alle sue capacità e alla sua fama, mentre quello del concertone del Primo Maggio è un pubblico che ha potuto raggiungere grazie agli organizzatori e grazie, soprattutto, ai mezzi Rai, pagati da tutti i contribuenti, cioè anche dai cittadini che la pensano diversamente da lui, e dalle persone che lui ha ferocemente attaccato e che in quella sede non avevano l’opportunità di difendersi. Fedez ha usato la Rai come se fosse la sua pagina Facebook e grazie all’autolesionismo dei dirigenti Rai è riuscito persino a passare per imbavagliato…

Ci sta che un artista voglia sostenere una campagna politica con un gesto, uno slogan, anche fuori contesto, proprio in una accezione ampia della libertà d’espressione, ma un comizio per attaccare un partito e singole persone è cosa assai diversa, intollerabile in un format senza contraddittorio. Ecco cosa si intende per “contesto” e che i dirigenti iCompany e Rai nella telefonata non hanno saputo spiegargli.

Sarebbe stata più consona al concertone del Primo Maggio una critica ad Amazon, per esempio, sui diritti dei lavoratori, considerando che proprio sabato i leader sindacali si erano recati a manifestare davanti allo stabilimento di Passo Corese. Ma comprendiamo che per Fedez, che di Amazon è stato testimonial, sarebbe stato imbarazzante.

Secondo piano: il merito della proposta di legge Zan. Ma Fedez l’ha letto quel testo di legge? E se l’ha letto, l’ha capito? Perché il lato paradossale è che se in un suo concerto dovesse cantare la strofa che alcuni anni fa ha dedicato a Tiziano Ferro, a norma dell’articolo 4 della legge che sostiene con tanta passione, potrebbe essere chiamato a risponderne da un giudice per istigazione alla discriminazione. Eccolo il problema del ddl Zan: l’attacco alla libertà d’espressione.

Se dovesse diventare legge, uno dei rischi sarebbe quello di tornare all’epoca, non così lontana, in cui i musicisti venivano processati per le strofe delle loro canzoni, in cui i loro accusatori vedevano l’istigazione a commettere reati o semplicemente la promozione di condotte immorali.

Proprio la Rai, il “servizio pubblico”, come altri media mainstream, sono responsabili di una costante opera di disinformazione sulle critiche al ddl Zan, dipingendo coloro che si oppongono al testo come oscurantisti e tacendo le criticità sotto il profilo giuridico. La stragrande maggioranza dei critici non è mossa da intenzioni discriminatorie o persecutorie nei confronti degli omosessuali, ma dai rischi per la libertà d’espressione.

Oggi il pensiero censurato, o comunque rappresentato come fortemente minoritario, sul tema, non è certo quello espresso da Fedez dal palco del Primo Maggio. Se Fedez avesse speso un decimo della sua influenza contro il coprifuoco e per il diritto, anzi la libertà di lavorare in questi mesi, cioè avesse fatto una battaglia davvero liberale, su quel palco non lo avrebbero fatto nemmeno salire.

Il ddl Zan introdurrebbe nel codice penale concetti controversi, ideologicamente orientati, come “identità di genere”, non giuridicamente tipizzabili. L’articolo 4 sembra fare salve la libertà d’espressione e il pluralismo delle idee, ma con un “purché” che introduce una scivolosissima condizione: “purché non idonee a determinare il concreto pericolo di atti discriminatori o violenti”. Una formulazione ambigua, che apre le porte ad una totale discrezionalità del giudice nella sua concreta applicazione.

Non aggiunge nulla ai diritti degli omosessuali, né alla lotta alle discriminazioni, le fattispecie di reato discriminatorie, diffamatorie e violente sono già punite dalla legge, e alcune già pericolosamente borderline tra istigazione e reato d’opinione. No, si tratta di porre le basi giuridiche per perseguire il dissenso ad una ideologia.

Un testo che si inserisce perfettamente in un contesto storico nel quale in tutto l’Occidente, a partire dagli Stati Uniti, la libertà d’espressione è sotto attacco: idee e opere artistiche non in linea con il pensiero woke, con la Cancel Culture, vengono censurate e bandite – e per le quali nessuno dei difensori di Fedez ci risulta sia insorto; i social media che approfittano della loro enorme influenza nel dibattito pubblico per censurare migliaia di account conservatori, a cominciare da quello del presidente uscente degli Stati Uniti.

Infine, c’è il piano politico in senso stretto. Politici, ex premier e segretari di partito che si mettono in coda per baciare le mani a Fedez nella speranza di guadagnare un po’ di simpatia tra i suoi milioni di followers. E sono gli stessi che hanno espresso – e in qualche caso esprimono da decenni – la maggior parte delle nomine Rai. Patetici.

Non solo in Italia, è un processo da tempo in atto negli Stati Uniti: la sinistra, in una deriva populista, ha appaltato ai personaggi dello spettacolo, con fortune alterne e anche effetti controproducenti, il compito di diffondere i suoi messaggi politici. Essenzialmente per la sua crisi di credibilità, per la sua incapacità di parlare ai giovani e ai ceti popolari, per la sua incapacità di persuasione attraverso il confronto degli argomenti. Una volta c’erano gli artisti organici, allineati ai partiti di sinistra, fedeli interpreti della linea del partito, oggi i partiti di sinistra allineati (o accucciati) ad artisti e influencer.

Esemplare il tweet di Enrico Letta:

“Sulla censura al concertone del Primo Maggio esigiamo subito chiarimenti e scuse da parte della Rai. Voglio ringraziare sinceramente Fedez perché il fatto che una persona come lui parli di questi temi, con la forza e con la visibilità che ha, rompe il tabù creato sul ddl Zan”.

L’unico tabù creato sul ddl Zan è quello secondo cui chiunque si opponga ad esso è un omofobo.

Ma il tweet di Letta esprime bene la degenerazione della sinistra in corso ormai da anni. Le sue priorità – e le rivendica – sono Ius soli e ddl Zan, due bandiere ideologiche: già oggi l’Italia è tra i Paesi europei dove si registrano più naturalizzazioni e la legge contro l’omofobia non aggiunge nulla che non esista già nel nostro ordinamento, spalancando invece le porte ad un potenziale attacco alla libertà d’espressione.

La identity politics è il nuovo ‘conflitto di classe’ attraverso cui la sinistra cerca di destrutturare le nostre comunità politiche. Il risentimento, il vittimismo delle minoranze – ritenute depositarie di diritti collettivi al posto degli individui – è tutto ciò che le resta per raccogliere consenso, voti.

E in fondo ha molto senso che questo cambio di paradigma venga plasticamente rappresentato sul palco del concertone del Primo Maggio: proprio nella giornata della Festa dei lavoratori i temi del lavoro sono stati oscurati dalla politica delle identità, sotto gli applausi scroscianti del segretario del Pd e dei leader sindacali. La lotta ad una presunta ‘omofobia sistemica’ è in cima alle preoccupazioni della sinistra, non le 300 mila imprese chiuse nel 2020, i 900 mila posti di lavoro persi. Ma questo, crediamo, i cittadini lo hanno ormai capito.

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