La tecnologia corre. Che Bill Gates o Jeff Bezos o Mark Zuckerberg siano tra gli uomini più ricchi sul pianeta è un fatto assodato, confermato nei numeri dalla classifica annuale della rivista americana Forbes che per il 2017 ha valutato la fortuna del primo attorno agli 86 miliardi di dollari, il numero uno in assoluto per l’ennesima volta, mentre il fondatore di Amazon si è posizionato terzo con 72,8 miliardi e l’ex nerd ideatore di Facebook è al quinto posto con 56 miliardi. Fin qui il valore come singoli, ma anche i loro prodotti sono ormai nella top five delle aziende mondiali quando si fa riferimento all’aumento del valore di mercato delle azioni dal 2009 ad oggi.
+1244% per Amazon, +407 per Facebook, +212 per Microsoft e non sono state da meno Apple (+705%) e Alphabet, l’holding che racchiude il mondo Google (+428). Si sono messe alle spalle società finanziarie e industriali che occupavano i posti più alti nella graduatoria: la Berkshire Hathaway di Warren Buffet, JP Morgan, Bank of America, Citigroup, General Electric, China Petroleum ora inseguono.
La scorsa settimana la capitalizzazione azionaria di Goldman Sachs è stata superata da quella di Netflix, che offre e produce film e serie televisive online. I banchieri erano considerati i padroni del mondo, prendendosi benefit e oneri, accentuati quest’ultimi dal malumore generato dalla profonda crisi nell’opinione pubblica: la tecnologia marcia spedita e le gerarchie sono cambiate.
Il tratto che accomuna le realtà indicate però non risiede solo nel fatto che possano essere ascritte al settore tecnologico, ma anche al fatto che siano tutte compagnie americane. Tra le cento aziende economicamente più potenti 55 hanno base negli Stati Uniti, solo 22 in Europa e il gap rischia di allargarsi ulteriormente. Perché se il settore tecnologico è un treno lanciato a grande velocità verso un futuro sempre più aggiornato e immediato, è altrettanto vero che la sua potenza trae beneficio dalla libertà e non dal protezionismo, da mosse magari ritenute azzardate, ma che possono agevolare nuovi finanziamenti e scommesse, aprire ulteriormente il mercato e facilitare nuovi sviluppi, abbandonando iniziative da “Project Fear”.
Dopo l’annuncio del presidente americano Donald Trump di un drastico taglio alle tasse, nei dicasteri economici dell’Unione europea si sono alzate proteste che, per quanto diplomatiche e armate di carta e penna, restano proteste.
Francia, Germania, Spagna e Italia, con i loro rispettivi ministri, si augurano di raggiungere un “compromesso bilanciato” con Washington per evitare una “conseguente distorsione sui mercati internazionali”, invece di ragionare su politiche che stimolino flussi di capitali intellettuali e d’investimento. Il rischio è di fare la figura di un passeggero che chiede gentilmente al macchinista di un Frecciarossa partito da Milano e diretto senza soste a Roma di rallentare, per lo meno, all’altezza di Bologna, pretendendo così di afferrarlo al volo senza rimetterci la faccia.