Questa potrebbe essere la settimana della “tempesta perfetta” sui mercati finanziari. La hanno paventata, nelle settimane e soprattutto nei giorni precedenti le elezioni, gli esponenti del partito, che, grazie ad un abnorme premio di maggioranza, ha governato la scorsa legislatura e ha a più riprese invocato il “voto utile”; altrimenti, si sarebbe andati verso una ingovernabilità che i mercati finanziari avrebbero punito. Anche perché – ma questo non l’hanno detto – negli ultimi cinque anni l’Italia ha avuto (dopo la Grecia) la crescita economica più bassa e il tasso di disoccupazione giovanile più alto dell’Unione europea ed il debito pubblico è cresciuto di 140 miliardi, nonostante i tassi d’interesse fossero prossimi alle zero grazie ad una politica monetaria molto “accomodante”. Non è detto, però, che la “tempesta perfetta” venga scatenata dalle elezioni in Italia. In primo luogo, ci sono indicazioni che, grazie principalmente al voto nel Sud e nelle Isole, il risultato complessivo potrebbe essere meno frammentato di quel che sembrava solo una settimana fa. In secondo luogo – ma questo è forse il punto più importante – nell’economia internazionale l’Italia è tutto sommato un Paese di medie dimensioni, i cui sussulti possono provocare timori e tremori all’eurozona e forse all’Unione europea, ma non all’economia mondiale. D’altronde, i risultati elettorali che hanno mostrato un’Italia spaccata in due con il centro-destra vincente nel Nord ed il M5S nel Sud (e nell’aggregato del Paese) nonché la scomparsa della sinistra renziana e di quella più tradizionale di LeU, non hanno causato grandi fibrillazioni dei mercati.
Negli ultimi giorni della scorsa settimana, si sono avute prove generali di una “tempesta perfetta” proveniente dall’altra sponda dell’Atlantico, all’annuncio del presidente degli Stati Uniti Donald Trump dell’imminente imposizione di dazi su metallurgia e siderurgia, seguito nel fine settimana dall’avvertimento che gli Usa potrebbero istituire un’imposta sulle auto di fabbricazione europea se queste ultime continuano ad “inondare” il mercato americano, un invito quasi a tornare a “programmi di restrizioni volontarie dell’export di auto made in Europe verso gli Stati Uniti” simili a quello degli anni settanta del secolo scorso.
Si è parlato di “guerra commerciale”, termine che fa paura in quanto evoca tempi bui anche se non necessariamente un brusco freno all’economia internazionale, come quelli che si sono verificati negli anni precedenti le due guerre mondiali del secolo scorso, ma una crisi economica e finanziaria analoga a quella iniziata nel 2007-2008 e da cui l’Europa, e in particolare l’Italia, sta faticosamente uscendo.
Anche se Tump opera più a base di tweet che di decreti presidenziali e sovente abbaia più di quanto non morda (e non ha né il Partito repubblicano, tradizionalmente favorevole al libero commercio, né il Congresso, né la finanza dalla parte sua), pure una semplice baruffa commerciale (che coinvolga il maggiore Paese dell’economia internazionale), non può non accentuare il rallentamento del commercio mondiale in atto da qualche anno. Al commercio è legata la crescita mondiale, in graduale declino in questi ultimi anni proprio in quanto l’espansione del commercio internazionale sta segnando una flessione. Basti pensare che i principali modelli econometrici sia dell’economia internazionale sia delle maggiori economie nazionali hanno come principale variabile “esogena” (ossia autonoma) le esportazioni mondiali e/o quelle nazionali.
Una baruffa commerciale potrebbe causare una “tempesta perfetta”, più degli esiti delle elezioni italiane, perché si verifica dopo diversi anni di ripresa mondiale (a cui, a causa di politiche economiche insulse, l’Italia non è stata in grado di agganciarsi) e proprio quando si cominciano a vedere segni di indebolimento. L’Italia sarebbe la vittima non la causa della ‘tempesta perfetta’.
Ciò si potrebbe evitare se si seguisse quel codice di commercio internazionale costituito dalle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, un codice organico, con istituzioni giurisdizionali, che prevede mediazioni e sanzioni. Ma non è certo l’Unione europea a poter scagliare la prima pietra.