La rivelazione del biografo Charles Moore: la Lady di ferro voleva sottoporre la questione europea al giudizio popolare. L’entourage conservatore europeista la fece fuori prima, per non correre rischi, ma è la dimostrazione che il voto del 2016 arriva da lontano e non è un rigurgito populista
I primi colpi della campagna elettorale britannica sono stati sparati nelle ultime ore. Ha iniziato Nigel Farage presentando la lista dei candidati del Brexit Party e tenendo un comizio su un ring di pugilato, giusto per far intendere che voleranno pugni, ma al contempo tenendosi fuori dall’agone: non correrà per un seggio a Westminster. Con una mano offre un’alleanza ai Conservatori, garantendo che non vuole rubare consensi, con l’altra cerca di rifilare un gancio ai Laburisti, promettendo battaglia per accaparrarsi il voto dei Brexiteers delusi da Jeremy Corbyn. Quest’ultimo ha rilanciato i grandi temi sociali e ha provato a spiegare la sua strategia sulla separazione dall’Unione europea: stracciare l’accordo di ottobre e uscire dall’impasse al massimo in sei mesi, definendo le elezioni del 12 dicembre una “one generation chance” di cambiare le sorti del Paese (la stessa posizione che Nick Clegg aveva espresso sul referendum del 2016, salvo cambiare idea risultato alla mano e prima di abbandonare definitivamente la politica).
La liberaldemocratica Jo Swinson invece ha incassato l’appoggio dell’eurodeputato Guy Verhofstatd, che non gode di grande popolarità Oltremanica, posando davanti ad un pullman, evidente richiamo a quello sfoderato tre anni e mezzo fa dal fronte del Leave con i 350 milioni di sterline a settimana che si sarebbero risparmiati per il sistema sanitario. Quindi a concludere il primo round ci ha pensato Boris Johnson, invitando gli elettori ad unirsi a lui per porre fine allo sfiancante ritardo nel completare Brexit e aprendo il fronte scozzese, rimarcando che con Corbyn a Downing Street ci sarà il rischio di un secondo referendum anche sull’indipendenza di Edimburgo.
Tra una dichiarazione e l’altra dei duellanti, spunta anche quella di Charles Moore, storico giornalista e scrittore, nonché autore della biografia autorizzata di Margaret Thatcher. Lo scorso mese è uscito l’ultimo volume del trittico che ripercorre la parabola finale della carriera della Lady di ferro. Un passaggio che ha riacceso le ferite mai guarite negli ambienti conservatori, riapparse proprio nella lunga e complessa questione legata ai rapporti di Londra con l’Ue. In “Herself Alone” Moore ha ripercorso i giorni che portarono alle dimissioni della Thatcher dopo essere stata sfidata dai colleghi di governo preoccupati dal crescente antieuropeismo dell’ex primo ministro, puntando il dito in particolare contro John Major, che andò a sostituirla. Un dramma politico, con lunghi e affilati coltelli riapparsi in scena dal 2016 in poi, quando Brexit è deflagrata scuotendo i corridoi solitamente più compassati del Parlamento britannico.
In una intervista rilasciata al think tank euroscettico New Culture Forum, l’autore è tornato sull’argomento rimarcando come l’entourage europeista del partito fosse molto preoccupato della volontà della Thatcher di passare per un referendum sulla moneta unica, portando così la questione europea al centro del dibattito pubblico. Non se ne fece nulla, il 28 novembre 1990 Margaret Thatcher lasciò per l’ultima volta Downing Street e il tema spinoso finì accantonato per anni (la sterlina in compenso rimase salda, l’ultima grande battaglia dell’epoca thatcheriana), praticamente dimenticato con gli anni ruggenti del New Labour di Tony Blair, ma mai del tutto cancellato, a testimonianza del fatto che Brexit arriva da lontano e non può essere derubricata sotto la voce rigurgito populista, come raccontato dettagliatamente anche dalla serie “Thatcher Sovranista” curata per Atlantico da Italians4Brexit. Così come da lontano è arrivato il regolamento di conti tra le due anime dei Tories sull’Europa disegnata a Bruxelles.
Brexit non si è ancora materializzata, chissà se mai lo sarà, ma di certo ha modificato la storia del Partito conservatore, come ha sottolineato sullo Spectator James Kirkup, che per anni ha raccontato la politica britannica, analizzando l’addio di Philip Hammond: un self made man che ama girare in Jaguar, poco incline ai grandi cambiamenti e all’interventismo statale e che a fatica ha digerito certe posizioni liberali come quella sui matrimoni gay, ma che oggi non ha più un posto nelle fila dei Tories. “Perché su Brexit ha assunto una posizione diversa da quella di Boris Johnson – e non c’è altro motivo”, conclude Kirkup. L’esito del voto del 12 dicembre ci dirà se si potrà dire lo stesso anche per gli altri partiti.