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L’abisso tra parole e fatti: l’Europa ha scelto la convivenza con l’islam radicale

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Mettiamo insieme alcuni fatti restando alle cronache degli ultimi giorni. L’attacco terroristico di Trèbes, in Francia, del solito “lupo solitario” dell’Isis (che poi tanto “solitario” non era…) e l’atto di eroismo di un comune gendarme (poi non così “comune”…), Arnaud Beltrame. Il destino paradossale di Mireille Knoll, una 85enne ebrea scampata alla Shoah ma non all’antisemitismo dei suoi vicini musulmani del 2018, che l’hanno massacrata a coltellate e bruciata nella sua casa di Parigi. In Germania si moltiplicano i casi di bambini ebrei e di bambine prese di mira da piccoli jihadisti in erba loro coetanei (l’ultimo caso a Berlino). E se questi sono i figli, immaginate i genitori… Le statistiche del Ministero degli interni tedesco registrano da anni un aumento dei reati di matrice antisemita: 1.200 nel 2015, 1.400 nel 2016 ed oltre 1.500 lo scorso anno (e sono solo i casi denunciati). Non compresi gli episodi di antisemitismo compiuti da minori su minori, anche bambini. Casi non più isolati, ma all’ordine del giorno, di offese, minacce e anche attacchi fisici, sia nelle scuole elementari che negli asili. Vittime gli alunni ebrei, ma anche non-musulmani, insegnanti, soprattutto se donne. Hanno già coniato un termine politicamente corretto, più rassicurante: si tratterebbe di “mobbing religioso”, non di antisemitismo e islamismo… Adriano Angelini Sut su Atlantico ha giustamente parlato di una “nuova Shoah, silenziosa, mediaticamente poco dolorosa”. Silenziata. C’è poi, soprattutto in Svezia e Germania, il fenomeno (per lo più occultato dai media mainstream) degli stupri e degli abusi sulle donne da parte di migranti musulmani, anche di massa e organizzati in occasione di eventi pubblici.

E veniamo all’Italia. In due giorni, il primo caso di indottrinamento jihadista di bambini e il primo jihadista italo-marocchino pronto all’azione. Particolari agghiaccianti in un centro islamico, “Al Dawa”, a Foggia. Il “maestro”, un italo-egiziano di 58 anni, esortava i bambini a “combattere i miscredenti, tagliare le loro teste e bere il loro sangue”. I giovani allievi (tra i 4 e i 10 anni) quasi tutti nati in Italia, ma di origini marocchine. Il tutto pare sia emerso non a seguito di denunce da parte dei genitori. Qualcosa che “non ha eguali in Occidente… qui, non a Dacca o nei territori dell’Isis. Nel cuore dell’Europa”, dice in un’intervista a La Stampa il ministro dell’interno Marco Minniti, che parla di una minaccia jihadista “mai così forte in Italia”, mentre si susseguono arresti e perquisizioni da nord a sud. Tra Roma (un quartiere popolare, Viale Marconi) e Latina sgominata la cellula Isis di Anis Amri, l’attentatore di Berlino (nel 2015 avevano in mente un attacco alla metro B della capitale). A Torino arrestato un militante Isis che preparava un attacco con un camion e cercava “lupi solitari”: un 23enne italo-marocchino, cioè di cittadinanza italiana. Eccole, le “seconde generazioni” che si cominciano ad affacciare anche nel nostro paese. Forse non è il momento per lo Ius Soli, se non vogliamo seguire il “modello” francese…

Il ministro Minniti osserva come “la caduta di Raqqa e Mosul, se da una parte fa venir meno l’elemento territoriale del Califfato, dall’altro aumenta la pericolosità dell’altra componente, quella terroristica”. E’ il tema del ritorno dei foreign fighters: migliaia di giovani islamici di cittadinanza europea o maghrebina andati a combattere in Siria e Iraq nelle file dell’Isis stanno cercando di rientrare. Come comportarsi, quali misure assumere?

Cerchiamo ora di mettere un po’ d’ordine. Da una parte il tema della sicurezza in senso stretto: prevenire la minaccia terroristica. Dall’altra, la battaglia culturale e civile, ideologica, contro l’islam radicale. Ovviamente non si tratta di universi paralleli, ma piuttosto di vasi comunicanti. Attacchi più o meno eclantanti e sanguinosi, come quelli compiuti in Francia o a Londra, in nome dell’Isis, non sono svincolati da contesti sociali e culturali che possono offrire diversi livelli di complicità, da un terreno favorevole alla radicalizzazione e al reclutamento, ad una vera e propria “copertura”. Per ogni singolo terrorista, comunità di migliaia e potenzialmente milioni di musulmani che pur non passando all’azione sposano l’ideologia islamista, che rappresenta di per sé, nel cuore dell’Europa, un arretramento netto della nostra civiltà.

Due facce della stessa medaglia, dunque. Eppure, c’è un abisso tra la fermezza delle condanne, la retorica grave dei vertici delle nostre istituzioni, e la realtà delle politiche attuate, che al contrario fa pensare ad un’assuefazione agli attacchi tanto quanto ad un’accettazione, o sottovalutazione, dell’impatto della diffusione dell’islamismo sui valori e la qualità della convivenza nelle nostre società.

“Non cambieranno le nostre vite”, sentiamo ripetere dopo ogni attacco, ma le hanno già cambiate. Le nostre città sono ormai militarizzate, piene di barriere antisfondamento, come nelle zone verdi di Baghdad o Kabul. Quando di tratta di accoglienza e integrazione, di poteri di intelligence e giudiziari, non rinunciamo ai valori delle nostre società aperte e tolleranti… Ma la libertà di godersi un concerto, un mercatino di Natale, una partita, una semplice passeggiata sul lungomare, a quella abbiamo già rinunciato… Anzi, i nostri governanti hanno rinunciato per noi.

Ogni volta che i “soldati dell’Isis” colpiscono nelle città europee, emerge ex post che si tratta di soggetti ben noti alle autorità – per lo più pregiudicati, quando non iscritti alle liste dei cosiddetti “radicalizzati”, eppure a piede libero… Non è possibile controllarli tutti, ma evidentemente è un rischio ritenuto accettabile. Si salvaguardano i bersagli grossi, sperando di prevenire stragi, mentre si ritengono in qualche modo “accettabili” attacchi di piccole dimensioni, con un numero ridotto di vittime, magari in provincia.

Quella che prevale, per quieto vivere (soprattutto delle classi dirigenti), è una logica di mera riduzione del danno. Non c’è la volontà di debellare la minaccia terroristica così come di sradicare l’islam radicale dalle nostre città, il che richiederebbe misure politicamente più costose.

Da una parte, significherebbe affrontare temi delicati quali la profilazione, i metodi di interrogatorio “rafforzati”, centri di detenzione speciali in cui rinchiudere a tempo indefinito i jihadisti che non si possono espellere, a cominciare dai cosiddetti foreign fighters. Si tratta insomma di abbandonare l’illusione di poter sconfiggere il nemico islamista “in punta di diritto”, cioè con mezzi legali ordinari, controllando e gestendo terroristi disciplinati, indottrinati e addestrati militarmente con i guanti bianchi, le procedure, le garanzie, i tempi dei nostri sistemi giudiziari.

Pensiamo ai giovani delle seconde generazioni e ai foreign fighters. Non li puoi espellere, devi tenerteli… E se è vero che, come spiega il ministro Minniti, le espulsioni sono uno strumento importante perché “consente di intervenire all’inizio di una radicalizzazione, prima che diventi un progetto terroristico”; se è vero che, come tutti sostengono, il carcere è il primo degli ambienti più favorevoli alla radicalizzazione, allora dovremmo almeno discutere se dotarci di una Guantanamo europea per isolarli rispetto agli altri detenuti, e se elaborare un regime giuridico ad hoc per questi “combattenti”.

Dall’altra, bisogna prendere atto che per alcune centinaia di fanatici pronti all’azione, nelle nostre città ci sono intere comunità islamiche intrise di un’ideologia d’odio e di un sistema di valori – dall’antisemitismo alla sottomissione delle donne e degli “infedeli” – incompatibile con il nostro, e dunque criminogeno. È un dato statistico: al crescere della popolazione islamista – e soprattutto in prospettiva della sua inevitabile rappresentanza politica nelle nostre istituzioni democratiche – assisteremo ad un arretramento netto di civiltà. Sta già accadendo, proprio sotto i nostri occhi, ci avvertono le cronache. Ci riporteranno (e ci stanno già riportando) indietro di decenni, se non di secoli, cancellando libertà e diritti conquistati al prezzo di enormi sacrifici. Non possiamo illuderci sull’efficacia dei nostri modelli di integrazione e sistemi educativi, la soluzione è la de-islamizzazione dell’Europa. Ovviamente non una persecuzione su base religiosa, ma lo sradicamento di qualsiasi manifestazione dell’islam radicale. Bene pretendere che le moschee e i centri culturali siano dei luoghi pubblici, trasparenti, dove si pronuncino sermoni nelle lingue europee, non in arabo, e che non possano accettare direttamente o indirettamente finanziamenti esteri. Ma occorre anche limitare l’immigrazione dai paesi islamici, bloccarla del tutto da quei paesi dove non sia possibile svolgere attività di verifica dell’identità di chi chiede di entrare, e rendere più difficile, non più facile, ottenere la cittadinanza, condizionandola ad una effettiva adesione al nostro sistema di valori fondamentali. Quindi bandire tutti i comportamenti integralisti, prevedendo di espellere l’intero nucleo famigliare di chi se ne renda protagonista.

Non può esserci una politica della “convivenza” e di mera riduzione del danno con l’islam radicale, perché nel lungo periodo equivale ad una sconfitta certa.