Il Regno Unito esce brillantemente dal duro negoziato con l’Ue sulla Brexit. Boris Johnson, nella migliore tradizione inglese, in una situazione difficilissima ha giocato all’offensiva. Se n’è infischiato delle critiche e delle profezie di sventura degli europeisti in patria e soprattutto all’estero. Ha impugnato lo spauracchio del no deal e ne ha fatto una bandiera. “Uno spettro si aggira per l’Europa, è lo spettro del no deal…”, potremmo dire parafrasando Marx e accostando così il diavolo all’acqua santa. Sta di fatto che, di fronte al tentativo dei suoi avversari di spargere paura nella popolazione lasciando intendere che l’uscita dall’Ue senza accordo avrebbe provocato disastri inenarrabili, il primo ministro non ha cercato di rassicurare a tutti i costi né assicurato che avrebbe perseguito la mediazione a prescindere, ma ha rivendicato la possibilità di un no deal come un’opportunità per i britannici. E, in questo modo, un buon accordo lo ha raggiunto davvero.
In questa sede, però, non mi interessa analizzare i termini del negoziato (cosa che, su Atlantico, hanno già fatto egregiamente Musso, Daniele Meloni e Dario Mazzocchi) quanto piuttosto, partendo dalla Brexit, osservare il divario esistente fra la visione inglese e quella italiana. In questa vicenda, è emersa tutta la differenza (l’abisso, verrebbe da dire) che esiste fra una nazione che ha una consapevolezza di sé ed una visione sul proprio posto nel mondo e chi non ce l’ha.
Brexit, ormai dovrebbe essere chiaro anche ai più ottusi commentatori, non è un’avventatezza di alcuni politici alla ricerca di visibilità. Al contrario, è l’inevitabile conseguenza di una strategia derivante da una chiara visione del ruolo che il Regno Unito dovrà giocare nei prossimi decenni. Una strategia ben sintetizzata dallo slogan Global Britain. La Gran Bretagna, forte del suo passato imperiale, non si rassegna a giocare nel campionato delle medie potenze, si libera dalle ossessioni regolatorie dell’Unione europea e osa assumere la postura di nazione in grado di competere con Stati Uniti e Cina. Velleità? Allucinazione? È tutto da vedere, la geopolitica si giudica dai fatti che produce e non dalle opinioni preconcette e spesso in malafede. L’idea che lo United Kingdom possa muoversi da protagonista nello scenario globale è basato su idee e fatti solidi.
L’Anglosfera esiste e riguarda quegli Stati le cui caratteristiche politiche, religiose, culturali, linguistiche, economiche, li rendono assimilabili al Regno Unito. Il legame socio-culturale che si è instaurato fra la Gran Bretagna, il soft power diremmo oggi, e le sue ex colonie è una realtà. Non dimentichiamo mai che l’Inghilterra guida ancora oggi il Commonwealth, cioè l’organizzazione che riunisce i 53 Stati che hanno fatto parte dell’Impero Britannico e che quindi non hanno mai tagliato del tutto il cordone ombelicale che li unisce all’ex Madre Patria. Addirittura, di 16 di questi Stati la Regina è tuttora formalmente Capo di Stato. È una carica simbolica ma quando è il momento la Corona non rinuncia a dire la sua (si veda l’intervento netto di Elisabetta II nel referendum sull’indipendenza del Quebec). La City di Londra è la più importante piazza finanziaria europea e, assieme a Wall Street, la più influente al mondo. Lo stesso British Style ha un fascino ancora intatto in tutto il globo. Dunque, la visione dei brexiteers di una Gran Bretagna che si gioca le sue carte liberamente, anche sul piano militare, su tutto lo scacchiere internazionale, è tutt’altro che velleitaria. Comunque la si pensi, è una strategia ambiziosa e motivante per i sudditi di Sua Maestà.
E in Italia? L’assenza di postura strategica del nostro Paese è un’evidenza innegabile anche per i più schierati sostenitori di Conte e della sua sgangherata compagine governativa. Chiedete, ad esempio, ai vertici delle nostre Forze Armate quanto pesi questa mancata visione negli scenari internazionali. O si chieda a Confindustria, per spostarci sul piano dello sviluppo economico. Ma gli stessi cittadini comuni, non sentono forse il bisogno di vivere in una nazione che abbia chiara la propria missione nel mondo? Non sentono la mancanza di una classe politica consapevole degli interessi nazionali e decisa a difenderli? Crediamo di sì.
Ma occorre partire da una classe dirigente adeguata. Il tanto sbeffeggiato Boris Johnson (sbeffeggiato dall’ipocrita establishment europeista ma stravotato dagli inglesi) ha un curriculum di primissimo ordine: studi a Eton, brillante carriera giornalistica nei principali giornali britannici e ottimo sindaco di Londra. Ha scalato il suo partito ed è diventato premier con il consenso e vincendo referendum ed elezioni. Vogliamo paragonarlo a Conte? Al nostro avvocato di Volturara Appula? Da dove viene? Che scalata ha fatto per arrivare a diventare presidente del Consiglio? La sua inadeguatezza risponde per lui. Si prenda Dominic Raab, ministro degli esteri di Johnson: si è formato ad Oxford e a Cambridge ed è un diplomatico del Foreign Office dal 2000. C’è bisogno che ve lo paragoni al curriculum di un Di Maio? Si prenda, ancora, l’attuale Cancelliere dello Scacchiere britannico (il ministro del Tesoro), Rishi Sunak. Ha studiato al Winchester College e durante le vacanze estive, per mantenersi agli studi, serviva ai tavoli in una casa di curry a Southampton. Successivamente ha studiato filosofia ed economia al Lincoln College di Oxford, laureandosi nel 2001, e conseguito un master in business administration presso la Stanford University. Pur avendo solo 39 anni ha già ricoperto ruoli importanti nel mondo dell’alta finanza londinese ed è stato vice Cancelliere prima di diventare titolare del dicastero. Vi sembra che il nostro ministro Gualtieri sia accostabile ad un profilo come questo? Capite perché i britannici hanno una strategia e da noi si brancola nel buio? D’altra parte, a Conte come principale capacità viene riconosciuta quella di saper galleggiare.
Gli italiani si mettano in testa che senza un’élite adeguatamente formata, di talento e con una visione strategica non si può affrontare alcuna delle grandi sfide che abbiamo davanti. Altro che votare in massa movimenti che proclamavano che “uno vale uno” e che qualunque cittadino poteva, dall’oggi al domani, diventare ministro. Abbiamo visto i risultati.