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L’Africa che non vi raccontano: economie in crescita, ma corruzione e tribalismo frenano lo sviluppo

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L’Africa continua a essere descritta come un continente devastato da guerre, carestie, epidemie, popolato da gente disperatamente povera, sfruttata da potenze straniere e multinazionali. È vero, ma solo in parte. A impoverire gli africani sono corruzione e tribalismo, che si alimentano a vicenda producendo un immenso, catastrofico spreco di risorse finanziarie e umane, e tuttavia l’economia continentale cresce costantemente da un quarto di secolo almeno. Il Pil continentale fino al 2015 ha registrato un incremento medio annuo del 4,4 per cento. Nel 2016 e nel 2017 si è registrata una flessione soprattutto nell’Africa sub-sahariana che ha risentito più del Nord Africa del rallentamento dell’economia della Cina, importante partner del continente, e del crollo del prezzo di molte materie prime, soprattutto il petrolio, sui mercati mondiali. Tuttavia il Pil è cresciuto del 1,3 per cento nel 2016 e del 2,4 per cento nel 2017. Per il 2018 si prevede un incremento del 3,2 per cento e per il 2019 del 3,5 per cento, grazie alla stabilizzazione dei prezzi delle materie prime e a un aumento graduale della domanda interna determinato a sua volta dalla riduzione dell’inflazione e da politiche monetarie favorevoli.

Molto si deve alle tre maggiori economie del continente – Sudafrica, Nigeria e Angola – ma sono 27, metà del totale, i paesi con una crescita del Pil superiore alla media sub-sahariana. Le previsioni restano negative per due paesi in forte recessione: il Sudan del Sud, che nel 2016 deteneva il primato della peggiore performance economica del mondo con un tasso del Pil negativo del 13,8 per cento, “sceso” a -6,3 per cento nel 2017, e la Guinea Equatoriale (-9,7 per cento nel 2016, -7,4 per cento nel 2017). Inoltre ci sarà crescita, ma relativamente debole in alcuni stati membri della Comunità economica e monetaria centrafricana: Gabon, Camerun, Repubblica Centrafricana, Ciad e Repubblica del Congo, danneggiati dal ribasso del prezzo del petrolio e da un crescente debito pubblico. Invece si prevede che i paesi dell’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale – Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo –manterranno un elevato tasso di crescita, anche se la Costa d’Avorio risentirà dei bassi prezzi del cacao sui mercati mondiali. Tra i paesi della Comunità dell’Africa orientale, infine, l’economia in più rapido sviluppo resterà l’Etiopia, il Kenya si prevede in recupero, mentre la crescita più modesta si avrà in Tanzania.

L’aumento del Pil indica una economia in crescita. Ma in Africa, dove è così consistente, questa si deve in gran parte allo sfruttamento e alla vendita delle straordinarie risorse naturali del continente, esportate grezze, raramente lavorate. La Nigeria, ad esempio, esporta petrolio, non benzina. Le poche raffinerie del paese sono da anni mal funzionanti, per incuria. I nigeriani consumano carburante acquistato all’estero. In tutto il continente i proventi ricavati dalla vendita di petrolio, diamanti, rame, fosfati, cacao, arachidi, te, caffè… sono investiti poco, male, non abbastanza in infrastrutture, servizi, incentivi allo sviluppo di settori economici moderni, industrie dell’indotto, diversificazione delle attività produttive. Una parte di quei proventi non finisce neanche nelle casse statali. Diventa patrimonio personale di uomini politici, funzionari, alte cariche militari. Nel 2014, ultimo anno per cui esistono dati, l’Ente petrolifero nazionale della Nigeria ha guadagnato 77 miliardi di dollari, 16 dei quali non sono mai stati depositati nelle casse dello stato. Anche una parte dei finanziamenti della cooperazione internazionale destinati allo sviluppo e ad aiuti umanitari vanno persi. Dal 2004 la Somalia ha ricevuto dalla comunità internazionale miliardi di euro destinati alla sicurezza e allo sviluppo. Nel 2012 il Gruppo di monitoraggio sulla Somalia dell’Onu ha denunciato che ogni 10 dollari consegnati al governo sette non arrivano mai alla Banca centrale, fatto peraltro già rilevato dalla Banca Mondiale secondo cui tra il 2010 e il 2011 si erano perse le tracce del 68 per cento degli aiuti internazionali al paese.

La crescita economica non si traduce quanto potrebbe, e dovrebbe, in sviluppo. Tribalismo, corruzione, persistenza di istituzioni funzionali alle tradizionali economie arcaiche di sussistenza e di rapina lo rallentano. Così gran parte delle rimesse degli africani emigrati, che nel 2017 hanno raggiunto i 34 miliardi di dollari, vengono usate non per realizzare investimenti produttivi, ma per integrare il reddito dei famigliari rimasti a casa, spese in consumi. Si usano per vivere meglio, acquistare beni di prima necessità e di status. Con il denaro dei parenti emigrati si acquistano abiti, scarpe, attrezzi, biciclette, motorini, televisori, elettrodomestici (senza che questo avvantaggi significativamente l’economia nazionale perché si tratta di beni per lo più fabbricati all’estero); si celebrano matrimoni, funerali e altre cerimonie con più larghezza di mezzi; consentono di pagare un prezzo della sposa più ricco, di ricompensare più lautamente chi esegue le mutilazioni genitali femminili delle figlie, di invitare e ospitare parenti e amici, ostentando abbondanza; servono a pagare cure mediche, rette scolastiche, “chai” e “kitu kidogo” più sostanziosi (“un te”, “una cosina”, così si chiamano in lingua swahili le mance e le tangenti senza le quali non si ottiene
niente) in paesi in cui la corruzione è un “cancro endemico” o, come dicono in Nigeria, “uno stile di vita”. Al meglio, grazie alle rimesse, il capofamiglia rimasto a casa smette di lavorare, le donne faticano un po’ meno a mantenere la famiglia.

Tuttavia lo sviluppo di un ceto medio produttivo sta modificando i rapporti sociali ed economici in molti paesi africani creando aspettative e istanze di modernizzazione, trasparenza, assunzione di responsabilità.

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