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L’aggressione a Daisy e il vero razzismo: un nuovo schiavismo che preferiamo non vedere

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Gentile direttore Enrico Mentana, non essendo giornalista, mi rivolgo a lei in qualità di scrittore. Sono rimasto molto sorpreso, negativamente, dalla sua drastica presa di posizione riguardo l’episodio occorso a Moncalieri, dove un gruppo di ragazze e ragazzi, fra i quali era presente l’atleta azzurra Daisy Osakue, è stato oggetto di un lancio di uova, una delle quali ha colpito l’atleta italo-nigeriana in un occhio. Lei ha dato immediatamente per scontato che si fosse trattato di un episodio di razzismo nei confronti di Daisy e, esercitando un potere di persuasione che le viene dal ruolo che ricopre, si è rivolto con tono ammonitore ai due vice premier Salvini-Di Maio (e non si capisce perché, visto che in Italia esiste un presidente del Consiglio, Giuseppe Conte che, in teoria, esercita il ruolo più importante all’interno del governo che ha la maggioranza in Parlamento).

Ho trovato il suo appello a rendersi conto del presunto clima di razzismo che esisterebbe in Italia totalmente scollegato non solo dall’episodio che lei ha riferito per primo (episodio di razzismo smentito, in seguito, dai carabinieri che indagano sull’accaduto e dalla stessa Daisy che ha avuto un colloquio telefonico proprio con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte), ma scollegato da quello che, personalmente, considero il vero e unico razzismo esistente in Italia. Come credo lei sappia, esistono centinaia, se non migliaia di immigrati provenienti dall’Africa che, tutti i giorni, sono costretti da una criminalità spietata a fare lavori da schiavi; molti vivono in condizioni disumane nelle baraccopoli che vengono tirate su alla buona accanto alle piantagioni di pomodori o frutta del Sud Italia. Vengono pagati, per quel lavoro pesantissimo, pochissimi euro e trattati come bestie. Nel libro di Stefania Prandi “Oro Rosso, Fragole, Pomodori, Molestie e Sfruttamento” (Edizioni Settenove), la giornalista denuncia una condizione disumana soprattutto delle donne utilizzate come braccianti; schiavizzate durante il giorno e ostaggio delle molestie dei padroni di notte. Una situazione al limite del subumano che l’autrice ha verificato non solo nei campi in Spagna, ma anche in Italia. Come si fa a non indignarsi, di fronte a evidenze tanto smaccate, come si fa a non aprire, ogni giorno, l’edizione del suo telegiornale con un servizio che faccia vedere agli italiani qual è il vero razzismo, anzi schiavismo? Com’è possibile che si denunci la bravata sporadica di qualche teppista esaltato e si nasconda l’orrore dello sfruttamento che quotidianamente viene perpetrato ai danni di esseri umani reclutati a forza dalla malavita, gettati sui pericolosi barconi del Mediterraneo e, dulcis in fundo, costretti a veri e propri lavori forzati? Perché in quei campi non ci sono italiani? Perché vengono sfruttati solo africani? Non è razzismo, quello?

Io abito a Roma, nel quartiere Nomentano, che credo lei conosca bene. Ogni giorno, ci sono ragazzi africani buttati davanti ai supermercati, ai bar, obbligati (da chi?) a chiedere l’elemosina, a fare, quando va bene, lavoretti di facchinaggio alle signore stanche che affidano loro i sacchetti della spesa. E li congedano con qualche spicciolo. Ogni giorno, qualcuno di questi nuovi sfruttati viene messo a raccogliere le foglie dai marciapiedi (a volte l’immondizia che si accumula fuori dai cassonetti) e, per quel lavoro, sperare nell’elemosina dei cittadini impietositi. Nell’indifferenza non solo dei mass media locali e nazionali, ma delle istituzioni e dell’azienda municipalizzata che avrebbe dei dipendenti pagati da noi e preposti a fare proprio quel lavoro di ripulitura. Perché solo ragazzi africani vengono sfruttati per fare quel tipo di interventi? Non è razzismo, quello? Anzi, schiavismo? Per non parlare dell’abominevole pratica di utilizzare i detenuti per eseguire i lavori del servizio giardini, in una città, Roma, in cui si è deciso di utilizzare metodi rieducativi simili a quelli delle peggiori dittature.

Ecco, gentile direttore. Al fine di mantenere un clima civile e una convivenza difficile, a me piacerebbe si parlasse di razzismo in termini appropriati e non ideologici. Il suo intervento ammonitore nei confronti dei vice premier Salvini-Di Maio (quest’ultimo forse reo di non aver ammesso che in Italia esisterebbe un clima di razzismo risorgente) a me è sembrato se non strumentale quanto meno avventato. Il razzismo esiste anche per me. Solo che lo si va a cercare nei luoghi sbagliati. Quello più crudele, feroce, spietato, ci passa tutti i giorni sotto gli occhi e, ormai abituati a una routine spersonalizzante, ci sfugge, o forse in un moto di inconscia autodifesa lo rimuoviamo. Chi lava i vetri al semaforo, chi vende fazzoletti, rose, chi raccoglie pomodori, chi è costretto a chiedere l’elemosina e fare lavori che altri dovrebbero fare, chi è costretto a condividere stanzoni con decine di connazionali in periferie sempre più degradate e inospitali, quello è vittima, secondo me, di razzismo. Un razzismo però legittimato da istituzioni che tollerano lo sfruttamento che sta dietro a quei tipi di business e a cui siamo talmente abituati da dimenticarci persino che esistano.