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L’allergia che ha provocato in ambienti di sinistra nostrani la risoluzione Ue di condanna di nazismo e comunismo

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Confesso che, ormai superato il limite degli ottant’anni, ho imparato solo ora, leggendo la risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019, che già undici anni fa, nel settembre del 2008, c’era stata la dichiarazione dello stesso Parlamento sulla proclamazione del 23 agosto come giornata europea di commemorazione delle vittime dello stalinismo e del nazismo; giorno, questo, coincidente con il sessantanovesimo anniversario del patto Molotov-Ribbentrop. Non mi pare che se ne sia avuta un’eco significativa in Italia, data anche la ricorrenza in piene ferie estive. Ma, a prescinderne, questa “dimenticanza” è dovuta alla costante discriminazione fra nazismo e comunismo, coltivata con cura nel nostro Paese, per cui il nazismo è stato ed è oggetto di una attenzione esclusiva, mentre lo stalinismo è rimasto sotto ampio silenzio. Non è un fatto solo italiano, che trova conferma nello spazio televisivo e cartaceo qui dedicato da sempre a Hitler rispetto a Stalin; ma anche internazionale, basti accennare alla ricca produzione cinematografica, con alcuni film giustamente celebrati per la loro spietata rappresentazione dell’ Olocausto.

Certo l’Olocausto ha contato molto, elevato ad esempio incomparabile di un genocidio, programmato ed eseguito con lucido furore, di un popolo intero, identificato in base alla sua religione; tale, per di più, da suscitare un complesso di colpa europeo, da cui ha tratto legittimazione lo stato di Israele. Ed è altrettanto certo che qui da noi ha giocato non solo tale complesso di colpa, in forza della condivisione della campagna razziale, ma anche la serie di drammatiche rappresaglie operate dall’esercito tedesco in ritirata, dalle fosse Ardeatine a Marzabotto, giustamente celebrate con cadenza annuale.

Solo che l’allergia che ha provocato questa risoluzione in ambienti di sinistra nostrani, si spiega anche, se non soprattutto, con la pluridecennale presenza altamente partecipata ed estremamente attiva sulla scena politica di un Pci del tutto schierato a favore dello stalinismo e del post-stalinismo, dalla sua stessa nascita fino almeno all’occupazione sovietica della Cecoslovacchia del 1966. Lo stesso cambiamento di nome, con la messa al bando della parola “comunista”, è contemporaneo al crollo del Muro di Berlino nel 1989 ed è stato realizzato non senza un significativo trauma interno.

La critica ha investito in particolare la attribuzione al patto Molotov-Ribbentrop della responsabilità di essere una causa determinante della Seconda Guerra Mondiale, con a immediata conseguenza la spartizione della Polonia, la guerra aggressiva verso la Finlandia, l’occupazione della Romania, l’annessione di Lituania, Lettonia, Estonia. Si è obiettato che questo non può essere un giudizio storico distaccato ed equilibrato, perché le origini della Seconda Guerra Mondiale risalgono addirittura alla conclusione della Prima Guerra, così come sancita dal Trattato di Versailles. Il che è vero, ma basta ricordare l’intitolazione della risoluzione del Parlamento europeo, laddove pone l’accento sulla “importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”, per capire che un conto è dare un giudizio storico, un conto diverso è consacrare come elemento della memoria fondante della Comunità europea un evento altamente penalizzante per alcuni suoi membri. Non v’è dubbio che se l’Europa occidentale ha avuto il fascismo, il nazismo, il franchismo, il governo di Vichy; quella orientale ha avuto lo stalinismo, che ha finito per coprirla tutta, con la calata della cortina di ferro. L’Europa occidentale si è quasi completamente liberata con la fine della Seconda Guerra Mondiale; ma non così l’Europa orientale, che ha conosciuto una sua splendida resistenza, culminata in rivolte soffocate nel sangue. 

Se la memoria deve essere comune, non può ignorare la sofferenza di quei paesi, tant’è che mentre la parte della risoluzione dedicata al nazismo è ormai da tempo consacrata, l’altra relativa allo stalinismo appare innovativa, non in sé, ma per la parificazione fra le due vicende storiche. Non per nulla a spingere sulla risoluzione sono stati, anzitutto, la Polonia, poi i Paesi baltici, cioè quelli per cui il Patto Molotov-Ribbentrop costituiva il tragico inizio della perdita della stessa identità nazionale, cosicché la data appare al tempo stesso significativa e rappresentativa dell’intera sequenza post-bellica. Non occorreva risalire più indietro del 23 agosto 1939, perché tutto comincia con la spartizione della Polonia, non per nulla il paese più popoloso di quello destinato a diventare l’Europa dell’Est.

Quei Paesi ci hanno chiesto di far comune anche la loro memoria di popoli che hanno conosciuto sulla propria pelle il dominio stalinista, che a differenza di quello nazista non ha avuto i processi di Norimberga o di Tokyo, né significativi  riconoscimenti auto-critici da parte della Russia. Senza dubbio questa rivendica di una memoria comune, può non piacere a qualcuno, perché il famoso patto del 1938 costrinse ad un radicale voltafaccia lo stesso partito comunista italiano, segno emblematico di quell’asservimento alla Mosca di Stalin, destinato a prolungarsi ben oltre, dopo non solo la sua morte, ma anche la aperta denuncia di Krusciov.

Chiamare in causa il contributo determinante dell’Unione sovietica alla vittoria finale, non serve molto, perché nessuno lo mette in dubbio, se pur frutto di una difesa ad oltranza contro l’invasione tedesca; ma questo non assolve dai crimini dello stalinismo. Ma, soprattutto, non conta far valere la differenza “dottrinale” fra un nazismo basato su una superiorità genetica della razza ariana, destinata a dominare il mondo; e, rispettivamente un comunismo centrato sulla liberazione della classe operaia e contadina. Non è in questione la “dottrina”, come sarebbe utilizzare i vangeli per assolvere i molti “tradimenti” della Chiesa; ma la lezione della storia. Tanto più che sotto accusa non è il comunismo del Manifesto del 1848, ma lo stalinismo, lo si veda anche come degenerazione o meno; ma, di dritto o di rovescio, la traduzione storica del comunismo è stata quella che è stata, così come recepita per decenni dallo stesso Partito comunista italiano e presa a primo referente di un qualsiasi partito comunista impadronitosi del potere.

Non si può negare che qualche partito comunista, a cominciare da quello italiano, abbia svolto un ruolo importante nello sviluppo democratico e sociale del proprio Paese; ma solo perché ha dovuto evolversi in un sistema che lo ha costretto all’opposizione, dove si è gradualmente liberato del suo passato, tanto che oggi il ruolo di padre nobile non viene riconosciuto a Togliatti ma a Berlinguer. Se l’Italia fosse stata nella zona di “influenza sovietica”, se il Fronte popolare avesse vinto le elezioni nel 1948, se non ci fossero stati il piano Marshall , il Patto atlantico, la Cee… ormai a sinistra c’è solo qualche isolato nostalgico che non tiri un respiro di profondo sollievo.