Nel giorno del 70esimo anniversario della nascita di Israele, gli Stati Uniti inaugurano la loro ambasciata a Gerusalemme. L’attuazione della decisione del presidente americano Trump di dare finalmente seguito ad una legge approvata dal Congresso Usa nel lontano 1995, il Jerusalem Embassy Act, che riconosce Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico e dispone che vi sia stabilita l’ambasciata, lancia almeno un paio di messaggi importanti agli attori coinvolti in tutto il Medio Oriente.
Innanzitutto, che gli Stati Uniti e Israele non si lasciano intimidire dalla violenza e dal terrorismo. Molti analisti e commentatori hanno criticato lo spostamento avvertendo che avrebbe provocato un’ondata terroristica e di violenze contro lo Stato ebraico e obiettivi americani in tutta la regione. Per ora, si registrano scontri solo al confine con la Striscia di Gaza, controllata da un’organizzazione terroristica, Hamas, che risponde a Teheran. Scontri il cui bilancio è diffuso dal ministero della salute di Gaza, quindi sospetta operazione di propaganda. I media mainstream parlano di “manifestanti”, ma sarebbe più corretto definirli militanti di Hamas.
In ogni caso, rinunciare ad una decisione legittima, che oltre tutto si limita a fotografare la realtà, sotto il ricatto di una rappresaglia violenta è il primo passo verso una resa incondizionata. Non si può nemmeno immaginare di instaurare un dialogo, di avviare dei negoziati, se si accetta come dato ineluttabile che i palestinesi ricorrano alla violenza e al terrorismo ogni qual volta non ottengano esattamente ciò che vogliono, anche se si tratta di richieste del tutto irrealistiche.
E qui veniamo al secondo importante messaggio.
La decisione del presidente Trump non compromette alcun processo di pace, dal momento che non esiste nulla ad oggi che possa assomigliare ad un processo di pace, com’è facile constatare. Al contrario, lo spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, e dunque il suo pieno riconoscimento come capitale d’Israele, ha il merito di fare chiarezza sui termini di qualsiasi realistico processo di pace tra Israele e i palestinesi, ponendo quindi le premesse per la ripresa dei negoziati su solide basi e richiamando la leadership palestinese e i leader dei Paesi arabi alle loro responsabilità.
Tra i maggiori ostacoli sulla strada del dialogo e della pace, infatti, le pericolose illusioni che i palestinesi hanno coltivato nel corso dei decenni, irresponsabilmente alimentate dai loro leader e da potenze regionali, come l’Iran, interessate per loro calcolo a tenere accese le tensioni e a strumentalizzare la questione palestinese, impedendone una soluzione, ma anche purtroppo dalle cancellerie europee. Una di queste illusioni, oggi finalmente rimossa dal tavolo, riguarda proprio la questione dello status di Gerusalemme, città sede del Parlamento, della Corte Suprema, della residenza presidenziale e di quasi tutti i ministeri, oltre che dei siti sacri, dello Stato ebraico.
Il messaggio fondamentale della decisione degli Stati Uniti è rivolto quindi ai palestinesi, ai loro leader e ai loro sponsor, allo scopo di sgombrare il campo da qualsiasi equivoco: Israele esiste, “è qui per restare”, è incancellabile dalle mappe. E come ogni nazione sovrana, ha il pieno diritto di determinare la sua capitale. Che è e resterà Gerusalemme, quanto meno Gerusalemme Ovest.
Perché dunque ostinarsi a comportarsi come se non lo fosse? Per negare implicitamente il diritto all’esistenza stessa di Israele e per impedire un serio negoziato, che abbia qualche chance di successo. Come hanno più volte chiarito la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato Usa, lo spostamento dell’ambasciata è il riconoscimento di uno stato di fatto e di diritto, ma non pregiudica invece lo status finale della città vecchia e dei confini. Questioni che non potranno essere affrontate finché i palestinesi continueranno a cullarsi nell’illusione di avere un potere di veto su Gerusalemme, e nella madre di tutte le illusioni, cioè che l’esistenza stessa di Israele sia temporanea.
E l’Europa, come si pone rispetto alla decisione americana? Ancora una volta Bruxelles e le principali capitali europee appaiono in ritardo nel comprendere la portata degli eventi e restano ingabbiate in schemi diplomatici logori, che hanno già fallito e che ormai suonano come vuota retorica per compiacere le parti senza alcuna reale chance di produrre cambiamenti e favorire la pace.
Per fortuna, su questo come su altri temi, l’Unione europea non è compatta. Dopo aver bloccato una dichiarazione di condanna della decisione di Trump, Austria, Ungheria, Repubblica Ceca e Romania hanno risposto all’invito del ministero degli esteri israeliano e una loro delegazione ha partecipato all’inaugurazione dell’ambasciata Usa nel quartiere di Arnona, nella parte ovest della città. Repubblica Ceca e Romania, inoltre, hanno annunciato di voler spostare anch’esse, seppure con tempi e modalità diverse, la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.
Anziché compromettere un processo di pace che nemmeno esiste, lo spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme potrebbe contribuire con il dono della chiarezza a porre le basi per avviarne uno, mettendo palestinesi e leader arabi di fronte alla realtà.