Va di moda, oggi, sostenere che l’America è in crisi, e la grande debolezza dell’attuale amministrazione contribuisce non poco a diffondere tale tesi. Eravamo abituati a vedere una superpotenza globale che esercitava senza remore la sua leadership, spesso ricorrendo alla sua enorme potenza militare.
Senza dubbio il quadro complessivo era più semplice quando gli Stati Uniti dovevano fronteggiare un nemico certo ma, tutto sommato, prevedibile come la defunta Unione Sovietica. Anche perché, allora, lo scontro aveva una forte connotazione ideologica che facilitava la divisione in blocchi contrapposti.
Ai giorni nostri i nemici sono più d’uno e spesso non è facile identificarli come tali con sufficiente chiarezza. Non solo. La Cina è senz’ombra di dubbio un pericoloso avversario, ma è impossibile ignorare l’inestricabile intreccio economico e commerciale che unisce – lo vogliano o meno – Pechino a Washington e alla stessa Europa. Lo stesso discorso, pur con notevoli differenze, vale per il frastagliatissimo mondo islamico, dove l’odio atavico tra sunniti e sciiti causa tra l’altro notevoli problemi quando si tratta di decidere le alleanze.
Credo però sia opportuno rilevare che la crisi americana è più apparente che reale. O se si preferisce, che si tratta di una crisi dovuta a fattori contingenti, la quale potrebbe essere superata in futuro con l’ingresso alla Casa Bianca di un presidente dotato di una strategia chiara sul piano della politica internazionale. Qualche illuso sperava fosse Biden, indicato come “esperto” in tale campo, ma il disastro afghano ci ha subito fatto capire con chi abbiamo a che fare.
Mi spiego meglio. Se si ha occasione di visitare di persona (e non solo navigando in internet) Paesi come Cina e Vietnam che – almeno in teoria – basano il loro ordinamento politico e sociale su valori assai diversi da quelli americani, è facile notare nelle nuove generazioni la forte tendenza a considerare gli Usa come modello da imitare.
Può sembrare incredibile, ma è proprio così. L’opinione delle classi dirigenti, in questi casi, conta assai meno dei comportamenti concreti che i giovani manifestano nella vita quotidiana, comportamenti che sono molto simili a quelli dei loro coetanei italiani, francesi e, ovviamente, americani.
Mao e Ho Chi Minh, pur ancora esaltati sul piano ufficiale, appaiono figure lontane, ormai avvolte dalla nebbia della storia. Più importanti, agli occhi dei ragazzi – ma anche dei trentenni – risulta la possibilità di viaggiare all’estero, di avere accesso ai social network, di essere in costante comunicazione con tutti mediante lo smartphone e – perché no? – di pranzare con frequenza nei fast food che si diffondono a macchia d’olio.
Tutto ciò implica una certa disponibilità di denaro, e a questo i governi provvedono per arginare entro certi limiti le tensioni sociali. L’immaginario collettivo giovanile nelle nazioni suddette è letteralmente impregnato di valori occidentali in genere e americani in particolare, con l’influenza della American way of life che si fa sentire con prepotenza nella programmazione televisiva, nell’abbigliamento standard e persino nell’istruzione universitaria, a dispetto di un marxismo-leninismo tuttora impartito su basi obbligatorie.
Aggiungo – e questo è ancor più sorprendente – che una simile tendenza è percepibile anche in parte dello stesso mondo islamico, con punte assai elevate in Pakistan, Indonesia e in alcune repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale. Il fondamentalismo è senza dubbio importante ma, a ben guardare, s’impone – e nemmeno sempre – solo mediante violenza e coercizione. Non si può escludere che, alla fine, esso venga sconfitto grazie alla resistenza “passiva” della maggioranza delle popolazioni.
Chiedo, allora, come possa essere considerato in crisi un Paese che nonostante tutto è riuscito a diffondere i suoi valori e il proprio stile di vita a livello globale. L’unica risposta possibile è che oggi, negli Stati Uniti, è cresciuta molto la polarizzazione politica, ragion per cui gli schieramenti contrapposti faticano addirittura a parlarsi. E questo, costituisce un pericolo serio poiché, in precedenza, non accadeva. Forse, più che di crisi, è opportuno parlare di una pausa dovuta, come dicevo poc’anzi, a fattori contingenti. Certo il ritiro caotico dall’Afghanistan ha umiliato non solo gli Usa, ma l’intero Occidente, ed era prevedibile che le autocrazie ne approfittassero subito. La speranza è che il prossimo inquilino della Casa Bianca dimostri doti di leadership di cui Biden è del tutto sprovvisto (come, del resto, la sua vice Kamala Harris). Se tale speranza si avverasse, allora potremmo dire che il “secolo americano” è destinato a durare a lungo.