“Buongiorno, sono Navalny. So i nomi e cognomi di chi voleva uccidermi, so dove vivono, dove lavorano, le loro identità false, ho in mano le loro fotografie”. Comincia così il video di quasi un’ora in cui il più noto oppositore di Vladimir Putin racconta per filo e per segno l’avvelenamento di cui è stato vittima lo scorso agosto durante un viaggio di lavoro in Siberia. La sua ricostruzione si basa su una strepitosa indagine di due siti giornalistici, Bellingcat e The Insider, in cooperazione con Der Spiegel e Cnn, che identifica in un gruppo di agenti dell’FSB (il servizio segreto russo) i responsabili dell’attentato. Il lavoro investigativo si sviluppa sulla raccolta e il raffronto di dati riguardanti le telefonate e gli spostamenti di operativi dei servizi sulle tracce di Navalny, a partire dal 2017, data dell’annuncio della sua candidatura alle presidenziali. Un lungo percorso, costellato di errori e passi falsi, culminato con la somministrazione della sostanza chimica in un Negroni “imbevibile” (parole dello stesso Navalny) nel ristorante dell’hotel di Tomsk (Siberia) dove l’attivista alloggiava.
Nessuna reazione ufficiale da parte del Cremlino che si è limitato ad annullare le due conferenze stampa del portavoce Peskov previste per il 15 e il 16 dicembre, in un chiaro segnale di imbarazzo. Stesso silenzio sui giornali in quota Putin e sulle televisioni di Stato, mentre l’emittente internazionale Russia Today si è incaricata di screditare il video definendolo come il lamento di “una scolaretta che dice di essere stata violentata dal suo patrigno”. Probabile che le prossime dichiarazioni del circolo di opinionisti e consiglieri vicini alla presidenza saranno dello stesso tenore, con l’obiettivo di attaccare non tanto l’inchiesta (sarebbe difficile farlo) quanto le credenziali della vittima, secondo un copione ormai consolidato che ultimamente però stenta a dare i suoi frutti a livello di opinione pubblica.
Si chiude con un colpo tremendo alla sua credibilità personale l’annus horribilis di Putin, la cui presidenza mostra ormai chiari sintomi di declino: il Covid, la crisi bielorussia irrisolta, la morsa cinese, la guerra del Caucaso ricomposta sotto la pressione turca e infine gli indizi di suo coinvolgimento diretto nell’avvelenamento di un oppositore con scarso seguito interno ma la cui rilevanza internazionale continua a crescere al di là dei propri meriti, proprio grazie all’ottuso accanimento di un sistema ormai avvitato su se stesso. Ad aumentare le preoccupazioni di Putin la constatazione di come sia stato facile per due siti di informazione indipendenti e intraprendenti accedere a dati sensibili riguardanti membri dell’FSB implicati in un’operazione di questa portata: probabilmente i muri della Lubjanka e la fortezza del Cremlino non sono così impenetrabili come si è soliti pensare.
Quella dei giornalisti di Bellingcat e The Insider è un’indagine piuttosto lineare nel metodo ma enormemente significativa nei suoi esiti. In pratica è consistita nel seguire le tracce lasciate dai componenti di un’unità clandestina del servizio segreto russo appositamente creata per occuparsi di Navalny fin dal 2017: i voli interni che in ben 37 occasioni ricalcano con esattezza gli spostamenti dell’attivista, le conversazioni telefoniche tra i membri del commando che si intensificano in corrispondenza dei momenti decisivi dell’azione, le comunicazioni interne degli agenti con i loro superiori. Ne emerge una catena di comando che porta direttamente ai vertici dello Stato russo. La squadra di avvelenatori era composta da almeno otto operativi fissi, tre dei quali incaricati dei compiti organizzativi e pratici (pedinamento, sorveglianza, contatti con esperti in armi chimiche). I nomi, per dirla con Navalny: Alexandrov, Osipov e Panyaev, tutti sulla quarantina, quest’ultimo vicino di casa della vittima; sopra di loro il colonnello Makshakov, scienziato dell’esercito e collegamento essenziale tra operativi sul campo e laboratori chimici; Makshakov riporta al generale Vasilyev, direttore dell’Istituto di Criminalistica dell’FSB, a sua volta agli ordini di Bogdanov, che presiede il Centro Tecnologico del servizio segreto e risponde direttamente al numero uno dell’organizzazione, Bortnikov. Per arrivare a Putin basta bussare alla porta.
Dall’inchiesta emerge che c’era stato un primo tentativo di avvelenamento a luglio, quando Navalny e sua moglie Yulia erano in vacanza in un resort a Kaliningrad. In quell’occasione fu lei a sentirsi male, accusando sintomi molto simili a quelli del marito un mese dopo, ma la crisi si risolse in una notte. Un primo colpo andato a vuoto a cui sarebbe seguito quello decisivo sulla tratta Novosibirsk-Tomsk-Omsk. Navalny, come noto, si reca a Novosibirsk per impegni politici legati alla campagna elettorale. Alexandrov, Osipov e Panyaev prenotano un volo di sola andata per la stessa località il 12 agosto. Devono aspettare cinque giorni per capire le prossime mosse dell’obiettivo, che decide di tornare a Mosca, ma da Tomsk, il 20 agosto. Solo allora i tre comprano i biglietti di ritorno e si installano in prossimità dell’albergo di Navalny.
Tutto registrato, tutto ricostruibile, incredibile ma vero, anche perché Alexandrov commette l’errore di accendere il suo telefono personale, permettendo la geolocalizzazione. La notte del 19 Navalny ordina al bar dell’hotel un Bloody Mary. Il cameriere gli risponde che non ha gli ingredienti a disposizione e gli propone un Negroni. Ma il cocktail è fatto così male che non può berne più di un sorso, e probabilmente questo gli salva la vita. Il resto è noto, Navalny prende l’aereo per Mosca il mattino successivo all’alba, si sente male, il pilota atterra a Omsk dove al paziente viene somministrata atropina, da qui il trasferimento a Berlino. Nel frattempo un flusso continuo di telefonate tra gli agenti ne dimostra la prossimità fisica allo scenario degli eventi e il coinvolgimento diretto nel fatto delittuoso. Gli implicati, quasi tutti con carriere in ambito medico-scientifico alle spalle, hanno come base operativa il già citato Istituto di Criminalistica nella periferia sud-occidentale di Mosca. Makshakov invece, il coordinatore della missione, ha lavorato durante molti anni nei laboratori della città chiusa di Shikhany-1, dove i sovietici svilupparono varie generazioni di agenti chimici, tra cui il Novichok.
Lavrov, titolare degli esteri, insinuava ancora poche settimane fa che Navalny era stato avvelenato in Germania. Ma ieri il primo ministro Mishustin, in una riunione con il presidente di Rostelecom ha chiesto di intensificare la “protezione dei dati personali” nell’ambito delle telecomunicazioni. Curiosa coincidenza nel giorno della pubblicazione dell’inchiesta che smaschera le trame dell’FSB.