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L’assalto al Congresso una follia suicida. Ma la crisi dell’America non svanirà con Trump

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Violenza ingiustificabile e perdente, così va in fumo un capitale politico: un regalo inaspettato e immeritato ai Democratici. Ma a voler essere onesti, una crisi politica che è il prodotto di decenni di delegittimazione di mezza America e dei suoi leader; di mesi di violenza politica di sinistra rimasta impunita; e di un processo elettorale opaco, che ha portato quasi metà del Paese – e non solo trumpiani – a ritenere (a torto o a ragione) l’elezione “rubata”

Immagini incredibili da Washington, scene che mai avremmo voluto vedere nel tempio della democrazia. Ma ci ricordano anche che la democrazia e la libertà non sono qualcosa di acquisito per sempre. Sono conquiste fragili che vanno difese, curate, giorno dopo giorno, non solo quando vengono direttamente minacciate.

La democrazia americana, in particolare, nel suo essere un esperimento grandioso, un faro a cui guardare, ha proprio per questo conosciuto nella sua breve storia momenti drammatici, molto più di quello a tratti farsesco di ieri. È una democrazia sempre in gioco, nella quale al massimo grado di libertà individuale corrisponde il massimo grado di responsabilità. Tanto che la Costituzione, riconoscendo “il diritto dei cittadini di detenere e portare armi”, di fatto riconosce loro anche il diritto di insorgere in armi quando ritengano che si stia instaurando un governo tirannico. Una grande libertà, ma anche una grande responsabilità, da maneggiare con la massima cura.

Eviterei però giudizi sommari: non si è trattato di un’insurrezione, tanto meno di un tentativo di golpe, che richiedono tutt’altri livelli di organizzazione, né della fine della democrazia americana, che ha visto e superato di peggio. Dovrà essere un’indagine a stabilirlo, ma è sembrata un’azione spontanea, sebbene di gravità inaudita (non ci risulta che il Congresso sia mai stato occupato) e dal carattere eversivo (ha causato l’interruzione di un processo costituzionale).

Donald Trump ha le sue responsabilità e pagherà a caro prezzo quanto abbiamo visto ieri. Da oggi, sarà più radioattivo che mai. Da oggi, sarà più difficile, a prescindere dal merito, che le sue ragioni sulle frodi elettorali vengano ascoltate e valutate. Il primo effetto è che la certificazione della vittoria di Biden al Congresso procederà più speditamente, le “obiezioni” ai voti dei grandi elettori negli stati contestati ritirate, ogni discussione sulle irregolarità seppellita. Sarà più difficile per chiunque difendere, o solo valutare serenamente la sua eredità politica, che pure presentava non pochi aspetti positivi; e sarà più difficile sostenerlo in futuro, nel caso in cui volesse correre di nuovo per la presidenza. Sarà per lui più difficile trovare alleati e sostenitori, tra i politici ma anche nel mondo dei media, dell’economia e della finanza. Molti che avrebbero potuto continuare a sostenerlo se ne allontaneranno.

Se la sconfitta di misura, l’elezione ritenuta “rubata” da una buona fetta di americani (non solo i suoi elettori), i 74 milioni di voti, gli lasciavano una grande influenza sul Partito Repubblicano, e quindi la prospettiva di ricandidarsi alla Casa Bianca tra quattro anni, è molto probabile (non certo, ma molto probabile) che l’assalto di una folla di suoi sostenitori al Campidoglio di Washington segni la sua fine politica.

D’altra parte, dal 4 novembre in poi, pur avendo ancora molto da perdere, ha deciso di andare all-in come suo stile, ha giocato con il fuoco, valutando che la gravità di quanto accaduto lo richiedesse. A torto o a ragione, ha perso il controllo della situazione. E, infine, ieri sera non avrebbe dovuto farsi anticipare da Biden nel pronunciare un discorso ufficiale. Avrebbe dovuto condannare subito l’occupazione del Congresso in corso e ordinare senza indugio l’intervento della Guarda nazionale.

Il boomerang della giornata di ieri rischia di tornare indietro per anni e di compromettere la stessa praticabilità politica di futuri leader che vogliano raccogliere la sua eredità, i suoi temi, le sue battaglie: qualsiasi dubbio sulla regolarità del processo elettorale verrà criminalizzato; lo stigma sociale e politico su chiunque esponga simpatie per lui o le sue posizioni moltiplicato; i Democratici passeranno immeritatamente per difensori della Costituzione e il Gop, lacerato, attraverso un doloroso processo di purghe e abiure, gli elettori smarriti e disillusi.

L’irruzione al Congresso è un atto ingiustificabile e controproducente. Ma sarebbe intellettualmente disonesto tacere gli altri fattori che hanno reso incendiario il clima politico negli Stati Uniti portando alle drammatiche scene di ieri. In queste ore, certo, strumentalmente molti addosseranno a Trump (e ai suoi alleati nel Gop) ogni responsabilità, autoassolvendo se stessi. Ma un’analisi disonesta non aiuterà a curare i mali che affliggono la politica americana e a riconciliare una nazione profondamente divisa.

Questa crisi politica è anche il frutto di anni di delegittimazione non solo di Donald Trump, legittimamente eletto nel 2016, ma di mezza America, vilipesa, dimenticata e umiliata da molto prima della sua candidatura. I Democratici giocano alla delegittimazione degli avversari (e dei loro elettori), chiunque siano, da decenni. Il mito dell’elezione rubata è antico, ma in tempi recenti risale al 2000, alla contestata vittoria di George W. Bush, che sembra aver dimenticato come venne dileggiato e demonizzato. E arriva ai giorni nostri, passando per la bufala Russiagate nel 2016, quando fu teorizzato e praticato un tentativo – questo sì golpista, messo in atto dall’interno delle istituzioni – di abbattere o quanto meno azzoppare la presidenza Trump.

Sullo sfondo, una polarizzazione culturale, prim’ancora che politica, crescente nella società americana: tra le coste e l’interno del continente; tra le aree metropolitane e le zone rurali. Senza dimenticare la minaccia della “Cancel Culture”, di cui torniamo a parlare su Atlantico con l’articolo di oggi del professor Marsonet.

Conseguenze disastrose hanno avuto anche i mesi di rivolte, incendi, saccheggi, “zone autonome”, statue abbattute e violenza politica della sinistra radicale, da Antifa a Black Lives Matter: violenze anch’esse eversive rimaste impunite, tollerate dalle autorità politiche – cittadine e statali – e giudiziarie, assolte dai media. Spesso i sindaci (Democratici) hanno ordinato alla polizia di non intervenire e di ritirarsi, anche se venivano assaltate stazioni di polizia e occupati i municipi; i governatori (Democratici) si sono rifiutati di far intervenire la Guardia nazionale per proteggere le vite e le proprietà dei loro cittadini, nonché la sicurezza degli edifici governativi; spesso i procuratori (anch’essi Democratici) non hanno perseguito i responsabili delle violenze. Quando a Portland sono stati presi d’assalto dai rivoltosi anche edifici federali, Democratici e media di sinistra hanno accusato di “fascismo” il presidente Trump per aver fatto intervenire agenti federali in loro difesa. Persino il presidente eletto Biden, nel condannare le violenze, disse che comunque i “manifestanti” meritavano di essere ascoltati. E dalla Campagna Biden/Harris sono arrivate donazioni a gruppi impegnati a far scarcerare e scagionare dalle accuse quei pochi responsabili individuati.

I grandi network liberal parlavano di proteste “prevalentemente pacifiche”, mentre sullo sfondo nei loro servizi si vedevano le città messe a ferro e fuoco. “Dove sta scritto che le proteste devono essere educate e pacifiche?”, si chiedeva Chris Cuomo della Cnn. E nulla da ridire quando, nel 2011, Democratici e attivisti di sinistra occuparono il Campidoglio in Wisconsin.

L’impunità di cui hanno goduto la scorsa estate i rivoltosi della sinistra radicale ha certamente incoraggiato i rivoltosi di destra visti in azione ieri. La violenza politica dev’essere condannata e respinta sempre e da tutti. Se invece viene tollerata e addirittura legittimata e premiata quando arriva da una sola parte, allora cominciano i guai.

Infine, come se tutto questo non bastasse, il carico da novanta di un processo elettorale la cui credibilità è stata minata dall’aver reso universale, con la scusa della pandemia, il voto per posta – un precedente unico tra le democrazie occidentali. Milioni di voti per posta arrivati fino a ore e giorni dopo la chiusura dei seggi. Con l’aggravante, in molti stati chiave, di procedure di identificazione degli elettori inesistenti, inaffidabili, o comunque meno stringenti di quelle previste per il voto in presenza. Per non parlare delle operazioni di scrutinio opache, delle firme non verificate e di altri inquietanti episodi documentati con video e testimonianze.

La grande lezione che forse siamo ancora in tempo per trarre (e vale anche per l’Italia) è che la democrazia si regge su un equilibrio di forma e sostanza più fragile di quanto pensiamo. La fiducia dei cittadini nel “sistema”, la sua credibilità, la sua capacità concreta di tutelare le libertà e generare benessere, di far sentire tutti accettati e legittimati ad esprimere le proprie idee, è importante quanto il suo funzionamento procedurale. Se la gente comincia a pensare che le regole che ci siamo dati, le costituzioni, lo stato di diritto, sono carta straccia; che si possono interpretare per gli amici mentre si applicano ai nemici; e che il gioco democratico è truccato, allora il giocattolo rischia di rompersi.

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