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L’attacco contro le forze Usa a Erbil: primo test per Biden e conferma che è l’Iraq il fronte del conflitto con Teheran

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Sono stati i “Guardiani delle Brigate del Sangue” – Saray Awliya al-Dam, milizia filo iraniana – a rivendicare l’attacco con razzi contro la zona dell’aeroporto internazionale di Erbil, capitale della regione autonoma del Kurdistan iracheno. Nella stessa area ha sede la base delle forze americane in Iraq, dopo il ritiro da buona parte di esse dal Paese nel 2020. Nell’attacco è morto un contractor americano, mentre altri cinque contractors e un militare sono stati feriti.

Un attacco, dunque, contro le forze americane di base nel Kurdistan iracheno, che oltre ad essere un primo test per l’amministrazione Biden, conferma come sia l’Iraq – come abbiamo evidenziato già nel 2019 su Atlantico Quotidiano – il fronte dello scontro tra Stati Uniti e Iran, ed è su questo prima di tutto che Teheran deve essere sconfitta, per costringere la Repubblica Islamica a rivedere definitivamente la sua pericolosa politica regionale.

Grazie alla politica permissiva dell’amministrazione Obama in Medio Oriente, e approfittando della necessità di contrastare la presenza dell’Isis, il regime iraniano negli anni è riuscito a creare decine di milizie a lui fedeli in Iraq che, di fatto, rispondono alla Forza Qods. Milizie quali Asaib Ahl al-Haq, Kataib Hezbollah e Harakat Hezbollah al-Nujaba, che oggi dispongono di oltre 100 mila combattenti.

Per anni, nonostante la presenza dell’ayatollah sciita al-Sistani, oppositore della Repubblica Islamica iraniana, Teheran ha potuto inflitrare liberamente il vicino Iraq, con la complicità degli ex premier iracheni, come al-Maliki, al-Abadi e al-Mahdi, e dei comandanti delle Unità di Mobilitazione Popolare – nate proprio su chiamata di al-Sistani per unire il Paese contro l’Isis, ma divenute appunto un ombrello al servizio del regime iraniano.

Le cose sono iniziate a cambiare in Iraq con la nomina a premier dell’ex capo dell’intelligence Mustafa al-Kadhimi, che di recente è riuscito anche a sostituire alcuni uomini ai vertici dei servizi iracheni, considerati anche loro troppo vicini agli iraniani e non affidabili.

Nonostante tutto, la strada da fare è ancora lunga. Come suddetto, al-Kadhimi, per quanto possibile, sta cercando di arginare l’avanzata iraniana, anche con mezzi diplomatici. Qualche giorno fa, non a caso, il ministro degli esteri iracheno Fuad Hussein si è recato a Teheran per incontrare il suo omologo Javad Zarif. Nonostante i sorrisi, dagli iraniani è arrivato un messaggio chiaro: la pace in Iraq ci sarà solamente quando gli americani abbandoneranno il Paese. In altre parole, quando l’Iraq sarà di fatto una facile pedina da porre al servizio dell’”ombrello difensivo iraniano” (che poi tanto “difensivo” non è, avendo una proiezione offensiva verso il Golfo Persico e il Mediterraneo).

Pochi giorni prima della visita di Hussein a Teheran, il capo della magistratura iraniana, Ebrahim Raisi, si era recato a Baghdad, dove aveva incontrato il giudice della Corte Suprema irachena Faiq Zaidan, il presidente Barham Salih e il premier al-Kadhimi. La visita di Raisi in Iraq è particolarmente rilevante, non solo per il Memorandum of Understanding firmato per approfondire la collaborazione giudiziaria tra Iran e Iraq, ma anche perché proprio Raisi potrebbe essere uno dei candidati di punta a sfidare Rouhani nelle elezioni presidenziali che si terranno il prossimo 18 giugno.

Le presidenziali iraniane si terranno pochi giorni dopo le elezioni parlamentari irachene, fissate per il prossimo 6 giugno. Saranno quindi mesi molto importanti per la nuova amministrazione Usa, per riuscire a dimostrare di avere la capacità di contrastare l’imperialismo iraniano non solo a parole, ma anche con i fatti. Lo ripetiamo: è l’Iraq il fronte del conflitto tra Stati Uniti e Iran ed è qui che Washington deve fermare Teheran, se veramente ha intenzione di costruire un Medio Oriente stabile e sicuro.

Infine, secondo quanto riportano i media arabi, l’intelligence Usa avrebbe trovato le prove che riconducono la responsabilità dello sventato attacco contro l’ambasciata emiratina ad Addis Abeba ai servizi segreti iraniani. Un attentato che, certamente, aveva come scopo quello di punire il Paese arabo che ha più creduto nella pace con Israele e firmato per primo gli Accordi di Abramo. Non serve molta immaginazione per capire cosa accadrebbe ai sunniti iracheni e a quelli del Golfo, se Teheran prendesse nuovamente il controllo del vicino Iraq (da cui, nel 2019, erano già partiti dei missili che hanno colpito le raffinerie saudite di Abqaiq e Khurais…).