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L’avanspettacolo sull’Ucraina e il cortocircuito di chi si opponeva al regime sanitario e ora tifa Putin

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Comprensibile la sfiducia nei media mainstream, ma incomprensibile schierarsi dalla parte dell’autocrate per dispetto o reazione istintiva alle varie coercizioni pandemiche imposte dai governi e caldeggiate dalla grande stampa

Sosteneva giustamente Churchill che “gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio”. Parafrasando la sua massima, si potrebbe affermare che gli italiani discutono di calcio come se si trattasse di una guerra e delle questioni belliche con la stessa leggerezza che meriterebbero le dispute calcistiche o argomenti più leggeri.

Così come già successo durante la lunga emergenza sanitaria, anche ora gli estenuanti dibattiti televisivi assomigliano più a programmi di intrattenimento che a momenti di reale approfondimento, in cui l’avanspettacolo è il genere prevalente e ciascun protagonista recita il suo copione. In queste settimane di eccidi, scontri cruenti, violenze gratuite, mostruosità, atrocità ai danni di donne e bambini, che sono i tratti caratteristici di ogni guerra, non solo di quella in corso in Ucraina, è piuttosto avvilente assistere a questa gara per un quarto d’ora di celebrità. All’appello non manca nessuna categoria: i filo-putiniani, che in Italia sono particolarmente numerosi, i guerrafondai pronti a combattere dal salotto di casa, gli immancabili neneisti e gli sterili pacifisti la cui unica prospettiva è la resa al tiranno, e cioè il più che probabile trasferimento del conflitto in altre aree che stuzzicano gli appetiti imperialistici di Mosca.

Naturalmente, la contrapposizione tra queste fazioni in lotta per un’ospitata fa perdere di vista non solo la tragicità degli eventi ma anche l’enormità e la complessità di quello che sta accadendo. È un po’ la stessa accusa che si muoveva ai cosiddetti populisti: semplificare e quindi banalizzare questioni articolate. Si vede che un certo tipo di demagogia è contagiosa e quasi nessuno ne è immune. Perciò, ci si abitua a tutto, anche alle tesi più ardite e bislacche. Si confondono i ruoli di vittime e carnefici, si scarica la responsabilità dell’invasione di uno stato sovrano su presunte mire espansionistiche occidentali che avrebbero “provocato” il Cremlino, si arriva perfino a dubitare sugli orrori documentati o a sovvertire crudeltà incontestabili.

È risaputo che “in guerra la prima vittima è la verità” e che gli ultimi due anni di infodemia hanno ingenerato un senso generale di sfiducia nei mezzi di informazione tradizionali che porta a dubitare o ad accogliere con una certa dose di scetticismo le notizie che vengono diffuse soprattutto attraverso i canali mainstream. Se, da un lato, il fenomeno è abbastanza comprensibile, però è altrettanto innegabile che non si può commettere un tragico errore di metodo: schierarsi dalla parte dell’autocrate per dispetto o come reazione istintiva alle varie coercizioni pandemiche imposte dai governi e caldeggiate dalla grande stampa con grande enfasi. Così si finisce per infilarsi in una clamorosa contraddizione: aver criticato aspramente misure liberticide come il Green Pass o gli obblighi sanitari per poi schierarsi con chi delle libertà e dei diritti, oltre che di uomini e donne, sta facendo strage.

Peraltro, proprio in un precedente intervento del 26 febbraio pubblicato da Atlantico Quotidiano, veniva evidenziato come il declino occidentale favorito da leadership logorate, derive anti-democratiche e debolezza sul piano culturale avesse favorito e incoraggiato l’intraprendenza del Cremlino. Eppure, la posizione critica verso l’autoritarismo di alcuni governi, certi provvedimenti di stampo cinese o alcune tendenze disastrose come l’ecologismo più estremo, che ledono pesantemente i cittadini e il sistema produttivo, non possono certo portare a questo assurdo meccanismo di identificazione con il nemico. Allora, vale la pena di ricordare l’insegnamento di un anonimo soldato americano poi tramandato con qualche aggiustamento nel corso dei decenni: “Right or wrong, it’s my country: if right, to be kept right; and if wrong, be set right”.

Giusta o sbagliata, è la mia parte. Se è giusta, la conserveremo giusta; se è sbagliata, la renderemo giusta. Ergo, se è coerente la posizione di chi si oppone alla certificazione verde e allo stesso tempo è inorridito dalla brutale aggressione russa, meno lineare è la posizione di chi ha osteggiato il regime sanitario per poi pendere incredibilmente verso gli inaccettabili metodi putiniani, assolutamente contrari ai valori democratici e liberali. Questo dimostra come il cortocircuito pandemico abbia provocato danni incalcolabili: l’incapacità ormai conclamata di articolare qualsiasi pensiero che vada oltre la contrapposizione tra le fazioni, l’abbandono del filo logico e, in definitiva, il sostanziale letargo della ragione. Tutto è polarizzato, estremizzato e condotto a posizioni parossistiche che, in ogni caso, non riescono a risollevare le sorti degli indici di ascolto sempre più fiacchi.

Insomma, cambia la materia ma lo scenario italiano resta per alcuni aspetti deprimente e per altri sconcertante. Così, ci viene restituita l’immagine di un Paese isterico che si accapiglia, sbraita, strepita in questa sfida poco lusinghiera a chi la spara più grossa, mentre là fuori il conflitto imperversa, gli approvvigionamenti energetici scarseggiano e il mondo è sull’orlo della terza guerra mondiale.

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la grande bugia verde