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Le 120 Giornate del coronavirus: ecco come della pandemia fecero pornografia

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Sotto la volta pallida di un cielo ormai incanutito, sfibrato da poche ed incerte nuvole, nel silenzio di una giornata ormai normalizzata dalle e nelle sue assenze, un gabbiano zampetta di macchina in macchina, sgranocchiando i rimasugli imputriditi di un ratto: ne vedi le viscere sbrodolate sul parabrezza di un veicolo, mentre l’uccello ti fissa imperturbabile, padrone della città.

Non è degrado, ma la “natura che si riprende i propri spazi”, secondo una ridicola e offensiva retorica di masturbatori seriali che dalle loro camerette, barricati e decisi a resistere contro la vita fino all’ultimo respiro, pontificano e blaterano di pandemia come opportunità.

Hanno sostituito i panzerfaust con i messaggi sui social, mentre tutto attorno brucia e cade e si spezza in rumori sinistri di una sconfitta dell’esistenza umana, della sua presenza, del suo stesso senso nel corso della storia. Il Fuhrerbunker tra presagi e sortilegi si è traslato sulle pagine dei quotidiani e nel ventre luminoso degli studi televisivi, vaneggiando di Federico il Grande e di grandi esperti virologi con un passato da maoisti.

“Volete voi il virus totale?”, ulula furiosa la canea virologica, mobilitazione di anime e corpi sacrificati e mandati a crepare ondata su ondata sotto il fuoco sferragliante del buonsenso e contro qualunque forma di libertà.

Tutti i desperados dalle vite grame e dalla frustrazione elevata a sistema cartesiano si sono dati convegno, al centro della pandemia, per pasteggiare sulla carogna della nostra società, e darsi un tono che non hanno mai avuto. Noi siamo il topo morto nelle fauci del gabbiano. È così che ci immaginano gli irriducibili del virus.

Brulicano nelle viscere cieche della città bombardata da messaggi di morte, promettendosi a vicenda croci di ferro per ogni lingua di fiamma virale e per ogni pessimismo elargito a profusione.

I cimiteri vomitano i loro morti, corpicini abbandonati e accatastati da una burocrazia che indulgendo in un linguaggio burocratico da Reich millenario dispensa patenti di essenzialità, mentre i corpi, i vasi, le urne, le bare si accalcano nella danza macabra di una nuova epoca, in strazio e spregio di qualunque umana sofferenza: nella scena virata, nel solustro del “Nosferatu” di Herzog, la pestilenza che macilenta avvolge come un sudario il profilo della cittadina, gli abitanti ballano ed ebbri cantano e piangono impazziti di gioia e dolore, e la fine, coi ratti a banchettare sui loro stessi tavoli, se ne sta in agguato dietro il primo muro.

Non importa che quei morti siano defunti per altro. Nell’immaginario collettivo e nelle puerili giustificazioni di politici e amministratori è stata la pandemia ad intasare le camere mortuarie, gli ossuari, i forni crematori.

A legittimare ogni limitazione. Il coprifuoco. Le sanzioni. I processi penali. Le automutilazioni e la depressione. I controlli minuziosi. Le delazioni condominiali. Un autismo di Stato indotto e inoculato giorno dopo giorno.

Il gorgo che tutto annichilisce e tutto spiega, la pandemia. L’agnello decomposto che emenda i peccati dei sindaci e degli scienziati e dei parlamentari e di gente che teme, una volta smessa la poltroncina di potere, di dover tornare a friggere patatine da Burger King.

Così ci siamo ridotti. Così ci hanno ridotto. Eco lontana di promesse di guarigione, di salvezza quasi metafisica. Il lockdown eterno. Ineluttabile. Insostenibile. Volti lombrosiani di virologi ormai virati al feticismo. Li vedi in televisione, mentre le città si fanno campo di morte, come nel cuore sventrato de “La distruzione” di Dante Virgili, e li immagini in un dungeon sporco di muffa e di sesso rappreso, novelli Marchese de Sade.

Le 120 Giornate del coronavirus, con mascherine e camici al posto di latex e fruste. Ma qui non c’è la glaciale solitudine dell’uomo nel vorticare del Cosmo, come scriveva Blanchot, c’è solo la psicosi di una nuova forma politica, il virus come elemento totalizzante, il mantra al cui ritmo si incammina una nuova nazione in marcia, il plebiscito virale di ogni giorno.

Vedi le loro espressioni. E quelle dei loro aficionados, la masnada dei lockdowners la cui unica funzione sociale è ricevere l’accredito dello stipendio pubblico garantito, ticchettando sensazionalismi pornografici sui principali social network, tanto per affossare ancora di più qualunque prospettiva di guarigione e di ritorno alla normalità.

La ballardiana mostra delle atrocità di gente annegata e spacciata come morta per Covid, la insopportabile retorica pelosa di intellettualini senza spina dorsale che invece di fare le pulci al potere gli puliscono gli stivali. Con la lingua.

Vogliono condurci, mano nella mano, calcio dopo calcio, sopruso dopo sopruso, nel gulag scrupoloso che stanno edificando. Mentre noi vogliamo solo concederci un respiro, interrompere questa apnea, e tornare alla normalità.

Alla normalità, non l’approdo da loro auspicato alla nuova, fetida normalità che stanno per apparecchiarci. Un futuro distopico di distanziamento sociale, di varianti sempre più varianti, di vaccini inutili, di bunker casalinghi sanificati come in “Una famiglia nucleare” di Mark Laidlaw, di controlli sanitari e bonifica dei linguaggi, di libertà compresse per sempre, di gente isterizzata, idrofoba, impazzita, di economia regredita ad uno stadio-premoderno e di caste virologiche e socialmente garantite a incarnare la nuova aristocrazia di Sangue e Covid.

Nel corpo c’è sempre l’ultima verità, così come nella prossemica, nella comunicazione non verbale. Te li rimiri, mentre in tutte le trasmissioni televisive ci promettono sofferenza e catene, presentati come demiurghi vagamente funesti, come i severi e giusti chierici della nuova religione di morte.

E nonostante questo sarebbero stati antipatici anche ad Albert Caraco, perché la morte che loro evocano e promettono è tetra, burocratica, stupida. È solo un ologramma che non ha nulla della scintillante crudeltà di un Breviario del Caos.

La bavetta che cola all’angolo della bocca, gli occhi fissi, vitrei, lo sguardo di chi punta, come un cecchino, la linea d’orizzonte in attesa di impallinare qualche passante. Sono impiegati del catasto della Morte.

Non hanno argomentazioni, ma recitano litanie e lisergici mantra, come si snuderebbe un comma antiquato solo per dar conto di un geologico ritardo nell’evadere una pratica: nascondono il sadismo connaturato e ontologico sotto spesse coltri di un apparente scientismo declinato al nichilismo pandemico.

Pensi a quel gabbiano e all’arrosticino di piccione o di ratto, mentre il fetore della decomposizione e della spazzatura non raccolta da settimane ti aggredisce le narici: il bus che sferraglia lento, stracolmo, ti accoglie nel suo grembo, e sai che non potrai contagiarti in quel carnaio, in quella malmessa orgia di pendolari perché il CTS non ha dati sufficienti che corroborino l’idea del contagio in stazioni e mezzi pubblici. E se la burocrazia non è in grado di decidere una cosa, quella cosa semplicemente non esiste.

Hanno però sufficienti dati, mai pubblicati, mai discussi sul serio, sul fatto che vita e libertà debbano essere negate. D’altronde non puoi contagiarti né contagiare gli altri se sei morto.

I sadomasochisti virologici indicano gli uccellini che cinguettano e i delfini nella laguna di Venezia, le acque in apparenza purificate dalla mancanza di umanità, borborigmi confusi di antropocene e di ambientalismo fondamentalista, questa è gente che avrebbe fatto raccapriccio per ipocrisia e incosistenza nel male pure all’Abate Guibourg: perché, se fossero davvero coerenti, ammetterebbero di voler vedere il genere umano sprofondare nella lava incandescente, snocciolando il rosario delle 150 Passioni Omicide invece di parlarci di misure di contrasto al virus.

Non anelano la guarigione, ma solo l’idea di poter cantare le loro glorie su città in rovina, cadute e frantumate.

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