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Le dinamiche del finanziamento alla politica e quel “clima infame” che portarono Craxi ad Hammamet

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La lontananza dall’Italia, la perdita del potere e la malattia. Sono queste le sofferenze che prova a descrivere Hammamet, il nuovo film di Gianni Amelio su Bettino Craxi. Un film che ha il merito di riportare all’attenzione il leader socialista, anche se non riesce, o probabilmente non vuole, focalizzarsi sui fatti e gli episodi che portarono Craxi lontano dall’Italia. Provare a ricostruire le ragioni che lo condussero ad abbandonare il nostro Paese può dunque aiutare a interpretare l’intero percorso craxiano. Per farlo è necessario tornare ad una delle più grandi rimozioni della storia contemporanea italiana: il finanziamento alla politica. Senza indagare con attenzione le sue dinamiche e le sue distorsioni non si può capire la demonizzazione di Craxi e quel “clima infame” che lo colpì.

La politica italiana nel corso della Prima Repubblica si era sempre finanziata in modo più o meno lecito. Agli albori della Repubblica dei partiti, la Dc riceveva finanziamenti dagli americani e il Pci e il Psi dai sovietici. Con il passare del tempo, con l’affermazione del partito pesante voluto da Fanfani, la Dc utilizzava anche gli apparati pubblici e para pubblici per reperire risorse, mentre i comunisti, diventati più forti dei socialisti, continuavano a ricevere gran parte dei loro finanziamenti dall’Unione sovietica. In questo scenario, il Psi risultava sostanzialmente tagliato fuori, dal momento che otteneva risorse ma mediate o dal Partito comunista (frontismo) o dalla Democrazia cristiana (centrosinistra). Cosa di cui più volte si lamentò Nenni, il padre politico di Craxi. Una mancanza di fondi che, come più volte raccontato da esponenti vicini al leader socialista, impediva una vera e propria autonomia politica. Essa non era raggiungibile se si dipendeva da fondi provenienti da terzi. Senza l’autonomia finanziaria, insomma, non poteva esserci autonomia politica, cosa che rendeva il Partito socialista un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro.

Craxi, una volta eletto segretario nel 1976, provò a rovesciare tale condizione. Lo fece svincolandosi dai comunisti, approdando così al riformismo, con una profonda svolta politico-culturale finalizzata a porre fine all’egemonia marxista-leninista. Ma operò anche in modo spregiudicato ampliando i canali di finanziamento illecito. Una mossa moralmente deprecabile ma politicamente comprensibile. Questa scelta tattica gli garantì un enorme potere coalittivo. Un potere di ricatto fondato sul carattere di forza media del Psi, cioè un partito necessario per governare e quindi indispensabile per la formazione delle coalizioni. Proprio per questo Craxi diventò presidente del Consiglio nel 1983 e rimase in carica fino al 1987, dando vita al governo più lungo della storia della Prima Repubblica.

Con la caduta del Muro di Berlino, con il processo di integrazione europea e con la crescente distanza tra partiti e società, tutti i nodi sul finanziamento illecito ai partiti sarebbero venuti al pettine. Ma solo per Dc e Psi, perché nel 1989 venne votata anche dai comunisti un’amnistia che riguardava proprio la violazione della legge sul finanziamento pubblico ai partiti. Un provvedimento che la dice lunga sulla pervasività di queste pratiche, che accomunavano tutte le forze politiche, ma che mette anche in luce l’astuzia dei comunisti che, dopo essersi parati le spalle, furono abili ad utilizzare le successive indagini ai danni del pentapartito. Perché, se è vero che Craxi dal 1987 perse parte della sua forza propulsiva e riformatrice (si pensi al “no” all’elezione diretta dei sindaci del 1989 o all’errore sul referendum sulla preferenza unica del 1991), è pur vero che il Pci-Pds seppe strumentalizzare magistralmente le inchieste per rifarsi una nuova verginità politica.

In effetti, i comunisti, teoricamente sepolti dalla caduta del Muro, rinacquero cavalcando le inchieste del 1992-1993 guidate dal pool di Milano. Inchieste che vennero sostenute acriticamente dalla maggioranza della stampa che diede prova di un clamoroso giustizialismo, fondato sulla violazione sistematica del segreto istruttorio e della presunzione di non colpevolezza. La combinazione tra il protagonismo della magistratura, l’aggressività dei media e del Pds e l’attivismo della gente (termine ricorrente all’epoca) fu letale per Craxi.

Egli, nonostante un’opinione pubblica sul piede di guerra, scelse di raccontare senza ipocrisie e falsità le dinamiche e la diffusione capillare del finanziamento illecito alla politica. Tale scelta, sommata all’opposizione al referendum sulla preferenza unica e al suo arroccamento nella alleanza con la Dc, lo trasformò nel capro espiatorio della crisi apertasi con la caduta del Muro di Berlino e con Mani Pulite. Divenne così il simbolo della partitocrazia corrotta da abbattere. L’antieroe della narrazione costruita dal sistema mediatico che lo contrappose senza grosse remore all’eroe salvifico Di Pietro. L’aggressione subita all’hotel Raphaël, figlia di questo perverso circuito mediatico-giudiziario, è la testimonianza plastica del clima creatosi in quei mesi. E spiega meglio di qualsiasi altro episodio le ragioni che lo condussero ad Hammamet, in Tunisia.