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Le donne che combattono per lo stato di diritto nei regimi islamisti ma ricevono poca attenzione in Occidente

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Ebru Timtik l’Occidente l’ha lasciata morire dopo mesi di detenzione e 238 giorni di sciopero della fame, iniziato per chiedere un processo equo. Timtik era una avvocatessa impegnata nella difesa dei diritti umani e dei prigionieri politici, in particolare alcune vittime delle proteste antigovernative di Gezi Park nel 2013. Per il presidente turco Erdogan, però, la Timtik era solo una nemica, parte di una associazione di avvocati accusata di essere in combutta con una organizzazione marxista-leninista responsabile di alcuni attacchi ad Ankara. Non possiamo che augurarci che almeno non sia morta invano…

Ma nella stessa condizione di Ebru Timtik ci sono altre avvocatesse coraggiose, imprigionate nelle celle di regimi fondamentalisti che, ben prima della Turchia islamista di Erdogan, hanno fatto dell’Islam politico la loro ragione di vita. Parliamo soprattutto di Nasrin Sotoudeh, avvocatessa iraniana impegnata anch’essa nella difesa dei diritti umani e dei prigionieri politici, che l’11 agosto scorso ha iniziato uno sciopero della fame per ottenere giustizia per i detenuti iraniani, ammassati in celle anguste nonostante l’emergenza coronavirus che corre incontrollata da mesi in tutto il Paese.

Per chi non la conoscesse, Nasrin Sotoudeh è stata incarcerata la prima volta nel 2010 e liberata solamente tre anni dopo, nel 2013. L’accusa nei suoi confronti era di minaccia alla sicurezza nazionale. Nel 2011, mentre si trovava in carcere ad Evin, Nasrin venne insignita del premio PEN America e, l’anno successivo, del premio Sakharov da parte del Parlamento europeo. Arrestata nuovamente nel 2018, è stata accusata di propaganda contro lo Stato e condannata a 38 anni di carcere e 148 frustate.

Davanti alla protesta di Nasrin per chiedere diritti per i detenuti iraniani, Teheran ha reagito con rabbia, arrestando con un pretesto la figlia della Sotodudeh, Mehraveh Khandan, prelevata dalla sua casa alcuni giorni fa e trasferita anche lei nel carcere di Evin (ove sono detenuti la maggior parte dei prigionieri politici). L’arresto della figlia ha provocato la rabbia della Sotoudeh, ma rafforzato la sua battaglia politica contro gli abusi della Repubblica islamica.

La palla è ora nelle mani dell’Occidente. Questa volta, al contrario di quanto accaduto con Ebru Timtik in Turchia, è necessario che la vita Nasrin Sotoudeh non venga sacrificata sull’altare di una realpolitik che, più che strategia realista, sembra ormai una vera e propria omertà.