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Le falle dello “Stato di polizia anti-virale” in Italia e l’alternativa britannica

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Che la strategia adottata dal Governo Conte rappresenti la migliore possibile e la naturale “stella polare” per tutti i Paesi che seguiranno è qualcosa ancora tutto da dimostrare

Di fronte all’emergenza coronavirus i vari Paesi europei stanno mettendo a punto, in questi giorni, la loro risposta. L’Italia ha avuto la sfortuna di essere l’apripista del contagio; gli altri Paesi hanno avuto l’opportunità di osservare il caso italiano e di imparare da esso, modulando la propria risposta di conseguenza.

Le conclusioni a cui i vari governi europei sono arrivati sono diverse, ma una prima riflessione generale può senz’altro essere fatta. Nessun altro Paese è rimasto così entusiasta del modello italiano di chiusure, divieti e confinamenti da decidere di applicarlo in patria addirittura in anticipo. Alcuni Paesi stanno adesso lentamente seguendo la scia italiana, mentre altri appaiono più o meno lontani dalla prospettiva di adottarla.

Per quanto in alcuni casi la mancata adozione di provvedimenti stringenti potrebbe essere letta semplicemente come un “ritardo”, dovuto ad inerzie interne, in altri casi sembra delinearsi sempre più chiaramente come precisa “scelta politica”.

L’esempio più conclamato di scelta di una linea alternativa a quella del nostro Paese è quello britannico. Il primo ministro Boris Johnson non fa mistero di ritenere il contagio quasi-universale della popolazione come l’unico scenario possibile per uscire dalla crisi – uno scenario da dilazionare in qualche misura nei tempi, ma inevitabile nell’esito.

La posizione di Johnson sta generando orrore e scandalo nei media italiani che la liquidano come una pericolosa follia – naturalmente aggiungendoci l’immancabile “character assassination” che accompagna ogni posizione assunta dall’attuale premier britannico.

In realtà, che la strategia adottata dal Governo Conte rappresenti la migliore possibile e la naturale “stella polare” per tutti i Paesi che seguiranno è qualcosa ancora tutto da dimostrare. Anzi, c’è qualche buona ragione per ritenere che la strategia italiana presenti un certo numero di falle e sia in gran parte reticente rispetto a questioni fondamentali di medio-lungo periodo.

E c’è qualche buona ragione per pensare che l’approccio britannico possa essere preferibile, sotto vari aspetti allo “Stato di polizia anti-virale” instaurato un Italia.

È bene precisare che questa posizione non nasce da una sottovalutazione dell’entità del problema e del potenziale di letalità del contagio: non c’è più nessuno in giro che pensi che questa sia solo un’influenza. E nemmeno nasce da considerazioni di “libertarismo ideologico”. Non si tratta di aggrapparsi a principi astratti di laissez-faire per sostenere che tutto si risolverà da sé o che ogni intervento “per via politica” sia ipso facto irrilevante se non controproducente.

La possibile validità dell’alternativa britannica nasce, piuttosto, da una valutazione pragmatica e a freddo delle informazioni di cui siamo in possesso in questo momento. Certamente, in una prima fase, quando il virus poteva apparire confinabile in un’area limitata, una strategia di contenimento non solo aveva senso, ma anzi avrebbe dovuto essere implementata con metodi, anche coercitivi, più rigorosi di quelli che sono stati effettivamente messi in atto.

Tuttavia, nel momento in cui si è perso traccia della catena del contagio e persone positive hanno cominciato a diffondere il virus ovunque nella penisola, la possibilità di un efficace confinamento dell’epidemia è in gran parte sfumata. I numeri assoluti del contagio e, più ancora, la sua distribuzione ormai diffusa hanno irrimediabilmente cambiato i termini del “trade-off”, accrescendo sempre più il costo delle azioni di contenimento rispetto agli effettivi benefici.

Serve a poco il mantra che l’Italia possa risolvere il problema come ha fatto la Cina – ammesso e non concesso che la Cina lo abbia effettivamente risolto. Il fatto è che il metodo Hubei non è implementabile in Italia per due ragioni.

La prima è che imporrebbe un livello di ricorso alla coercizione che non sarebbe mai possibile – o almeno che ci auguriamo non sia mai possibile – in un Paese occidentale.

La seconda è che l’area messa effettivamente in una quarantena dura, in Cina, rappresentava comunque una percentuale relativamente piccola della popolazione e del Pil nazionali. Lo “spegnimento” della provincia di Hubei era uno sforzo che il complesso della Cina era in grado di ammortizzare. Ma non si può pensare di “spegnere” tutta l’Italia – tanto meno tutta l’Europa.

La verità è che la “via italiana” alla gestione dell’emergenza in questo momento presenta una serie di importanti elementi di fragilità.

In primo luogo, non è affatto detto che riesca a ricondurre il numero di contagi a dimensioni compatibili con la sostenibilità del sistema sanitario nazionale. Come lo stesso premier Conte ha affermato i primi risultati delle misure intraprese si potranno osservare solo dopo un paio di settimane dal loro inizio, ma questo vuol dire che, con tutta probabilità, tra pochi giorni, i casi accertati saranno già più di centomila e quindi comunque ben oltre condizioni di praticabilità medica.

In secondo luogo, una volta scelta la strada del lock-down, non è ben chiaro sulla base di quali criteri si pensa di poterne uscire. Le date nominali di validità delle misure che, di volta in volta, vengono fornite appaiono più un modo di edulcorare la situazione agli occhi dei cittadini che una roadmap minimamente credibile. Come si può pensare che si possa riaprire l’Italia il 3 aprile, con un numero di “casi attivi” ben superiore a quelli che c’era quando le direttive sono state emanate? Ma nella stessa situazione ci troveremmo il 3 maggio, il 3 giugno, il 3 luglio e così via. Indipendentemente dal numero di casi attivi a quelle date, nel momento in cui si provasse a ritornare alla normalità, i contagi riprenderebbero ai ritmi di questi giorni, vanificando tutti i sacrifici effettuati.

Infine, nel caso estremamente improbabile in cui, attraverso la messa in campo di misure estreme di quarantena nazionale, si arrivasse ad estinguere completamente il virus, l’unica possibilità di preservare il Paese sarebbe una chiusura delle frontiere in stile nord-coreano. Non si potrebbe più far arrivare un solo turista dall’estero, altrimenti si importerebbe nuovamente l’infezione. Né si potrebbe più consentire agli italiani di andare all’estero, per non riportare il virus al ritorno. Nessuna delle nostre aziende potrebbe più organizzare viaggi di lavoro fuori dai confini; né potrebbe ricevere clienti, fornitori e partner esteri.

In definitiva, per quanto una parte di italiani viva nella convinzione che si tratti solo di trattenere il fiato per poche settimane, la sensazione è che il nostro Paese si stia infilando in uno stallo dal quale potrà uscire solamente a fronte della disponibilità di un vaccino di massa – cosa per la quale, secondo molti, sarà necessario attendere il prossimo anno. Ce lo possiamo permettere?

Certo, una delle cose che si sente ripetere più frequentemente negli ultimi giorni è che la politica deve fare un passo indietro e che in questa fase bisogna solo “dare retta alla scienza”, senza discutere e a qualsiasi costo. Ora, è chiaro che un approccio razionale e scientifico alla vita è molto opportuno e che è necessario attribuire il massimo peso al parere degli “uomini di scienza”. Allo stesso tempo, però, questo non vuol dire che in un Paese sia possibile, né desiderabile un “governo degli scienziati”.

Il problema principale degli “esperti” è che ciascuno, pur avendo una grande comprensione della propria disciplina, vede in essa, in molti casi, l’unico criterio ordinatore dell’universo. Ci sono pochi dubbi che se erigessimo una persona come Roberto Burioni a dittatore, si riuscirebbe a sradicare il virus – ma probabilmente ci troveremmo in una situazione del tipo “l’operazione è riuscita, ma il paziente è morto”.

Il fatto è che noi non possiamo uccidere l’Italia per salvarla dal coronavirus. È per questo che “le ragioni della scienza” devono contemperarsi con considerazioni più ampie e generali. In fondo non esiste solo la “scienza medica”; esistono anche le scienze sociali ed inderogabili principi di causalità delle dinamiche economiche.

Per quanto suoni apparentemente “alto”, “nobile”, persino “eroico”, sacrificare l’economia in nome della salute, le conseguenze di lungo termine del lock-down possono essere epocali.

Un Paese come il nostro che, in tempi recenti, non ha mai conosciuto la miseria vive nella convinzione di avere un “diritto di nascita” al benessere, ma la straordinaria fortuna del tenore di vita occidentale non è un “diritto acquisito”, bensì il risultato di un complesso ed efficiente processo di creazione di ricchezza.

Appare illusoria, quindi, la diffusa convinzione che in economia tanto comunque “tutto si aggiusta” e che alla fine basti qualche gioco di prestigio finanziario o monetario per consentire a un popolo di poter vivere, a lungo, senza lavorare. Se la paralisi del nostro Paese si protraesse per alcuni mesi, le conseguenze sarebbero drammatiche, soprattutto per tutti coloro che negli anni non hanno potuto accumulare cuscinetti grazie a fonti di reddito continue nel tempo e garantite dal “sistema”.

Ma quello che è peggio è che non basterebbe ritirare su un interruttore per ripartire dopo aver “passato la nottata”. Molte aziende saranno fallite o comunque avranno perso capacità produttiva e spazi di mercato. Molte attività non saranno più economicamente vantaggiose. Molti posti di lavoro saranno persi per sempre. La domanda interna collasserà, non solo perché molte persone si troveranno senza reddito, ma anche perché anche chi riuscisse a limitare i danni della crisi, molto probabilmente modificherebbe il proprio stile di vita, nel senso di una minore attitudine alla spesa e al rischio.

In caso di lock-down prolungato, l’Italia potrebbe, addirittura, uscire dal “primo mondo” e questo non si tradurrebbe semplicemente in uno stile di vita un po’ più gramo, ma anche direttamente in “più morti” – per sottoalimentazione, criminalità, accesso limitato al riscaldamento, impossibilità di garantire gli standard sanitari a cui siamo abituati oggi.

Non serve nemmeno dover immaginare scenari venezuelani; se l’Italia si limitasse a declinare ai livelli economici dei Paesi più periferici dell’Europa dell’Est o di un medio Paese sudamericano, l’aspettativa di vita – che è da sempre uno dei nostri vanti – potrebbe scendere di vari anni.

Tutto questo deve essere tenuto presente, nel momento in cui si giudica la scelta di altri Paesi di avviarsi verso una via di gestione diversa da quella impostata dal Governo Conte. Bisogna anche sgombrare il campo dall’idea che la via che governi come quello britannico hanno in mente sia quella di “non fare nulla”. Per quanto, certamente, nei vari Paesi si delineino strategie diverse, il quadro non è in “bianco” e “nero”. Così come l’Italia riconosce che non tutte le attività possono ragionevolmente essere arrestate, anche i Paesi meno “interventisti” riconoscono che un certo grado di azione politica è necessaria per la gestione della crisi.

In questo senso il Regno Unito ha, come ogni altro Paese, l’obiettivo di abbassare la curva dei contagi, di rallentare la diffusione geografica del virus e di mitigare gli impatti dell’epidemia sul sistema sanitario. La vera differenza, rispetto all’approccio di altri Paesi, è che Londra non pare disposta a mettere in atto misure che interferiscano in modo pesante sull’economia del Paese e sulla vita delle persone.

Al centro della strategia britannica c’è il concetto che il virus non possa essere fermato e che qualunque intervento di lock-down sarebbe immediatamente vanificato nel momento in cui le misure fossero tolte. In questo senso, per quanto sia ragionevole cercare di spalmare la diffusione su un tempo un po’ più lungo per ragioni di gestibilità tecnica da parte degli ospedali, è bene che il virus circoli nella popolazione e che il contagio avvenga, sostanzialmente, in un’unica ondata – in modo da costruire, per il futuro, un’immunità di gregge.

Quello che il governo britannico intende implementare, durante la fase di picco dei contagi, è l’isolamento delle persone più vulnerabili, in particolare degli anziani e di persone con gravi patologie.

Boris Johnson non indora la pillola. Sa e ha detto apertamente che si dovrà mettere in conto che l’epidemia mieterà un numero significativo di vittime, ma non è detto che siano veramente di più di quante ne moriranno in Paesi che hanno messo in atto politiche più restrittive.

Inoltre, a Londra non ci si illude che, con la strategia prefigurata, il passaggio del coronavirus sia privo di contraccolpi economici che ci saranno comunque, e tanti. Ma il Regno Unito non si fermerà e farà di tutto per assicurare la continuità del suo sistema economico e questo potrebbe rendere meno complicata la ripresa una volta che l’emergenza sarà alle spalle.

Quella del premier britannico è una scommessa certamente impegnativa perché, in una società moderna che attribuisce, su qualsiasi fronte, un ruolo salvifico allo Stato e alla politica, è molto facile accusare un governo di “non star facendo abbastanza”.

Tuttavia, in uno scenario come quello attuale in cui nessuno può realmente dire di disporre di una comprensione complessiva del fenomeno, la scelta di approcci diversi e alternativi rispetto a quello italiano non può essere vista come un’eresia sconsiderata – a maggior ragione quando essa proviene da democrazie consolidate che possono vantare qualche successo alle spalle.

Incidentalmente il Regno Unito non è da solo sulla strada su cui si sta muovendo. Altri Paesi, come la Germania e l’Olanda sembrano pure aver intrapreso una gestione di basso profilo dell’emergenza.

E, secondo molti, anche il presidente francese Macron è ormai orientato più sulla via britannica che su quella italiana. Ha, sì, intrapreso alcune misure mirate a rallentare la diffusione del contagio, ma secondo quanto scrive ad esempio Le Figaro, “è ormai stata presa le decisione di far fare il suo corso all’epidemia e di non provare ad arrestarla bruscamente”. Fare in maniera diversa significherebbe “uccidere l’economia, sconvolgere la vita democratica rinviando le elezioni e restringere in definitiva la libertà dei cittadini”. Insomma, per come si stanno mettendo le cose, non è affatto detto che l’Italia sia il Paese che insegna a tutti gli altri come si gestisce il coronavirus. E non è nemmeno scontato che si trovi parte dell’approccio strategico “di maggioranza”. Potrebbe uscirne – speriamo di no – come uno dei Paesi che ha aggiunto ai gravissimi danni del coronavirus più colpi auto-inferti al proprio tessuto economico, sociale e civile.