Un sistema che ha dimostrato che l’omertà autoritaria genera mostri… Più che un regime che si è adattato alla modernità, la Cina è una dittatura che utilizza gli strumenti della modernità in una forma e un’estensione mai viste, portando il concetto totalitario di sorveglianza di massa all’estremo. Ma si aprono crepe inattese: la lettera aperta di Xu Zhangrun attacca il cuore della dittatura comunista
Mentre il New York Times pubblica la cifra spaventosa di 150 milioni di persone in isolamento o sottoposte a misure restrittive di vario genere, il direttore dell’ospedale di Wuhan muore infettato dal coronavirus. I decessi dei medici e del personale sanitario rappresentano uno dei dati più inquietanti dell’epidemia cinese: in teoria dovrebbero essere proprio loro i più protetti, invece non solo si ammalano ma spesso non riescono a sopravvivere. Il messaggio implicito è che nessuno è al sicuro e che, nonostante la progressione del contagio sembri rallentare, la situazione è lontana dall’essere sotto controllo.
Volano teste nella periferia dell’impero, con i funzionari locali che pagano le negligenze e l’elefantiasi di un sistema che ha dimostrato che l’omertà autoritaria genera mostri. Anche perché, secondo un’indagine del coraggioso sito giornalistico Caixin Global, dove gli amministratori locali si sono mossi senza attendere direttive dal centro l’estensione del virus si è potuta contenere: è il caso della località di Qianjiang, a un centinaio di chilometri da Wuhan, dove una settimana prima dell’annuncio ufficiale dell’epidemia 32 persone erano già state messe in quarantena. Ad oggi i contagi sarebbero solo 162. Insomma, se si fosse agito per tempo su scala generale, le conseguenze del coronavirus sarebbero oggi probabilmente meno letali. Invece emerge che Xi Jinping, l’uomo più potente della recente storia cinese dopo Mao, era a conoscenza del problema già dal 7 gennaio. L’allarme su scala nazionale (e internazionale) sarebbe stato dato solo quindici giorni dopo, mentre i medici lottavano già da quasi un mese contro una malattia di cui non conoscevano l’origine. La macchina della propaganda ovviamente fornisce un’altra versione: il presidente avrebbe immediatamente diramato gli ordini per far fronte all’emergenza ma i funzionari locali non si sarebbero dimostrati all’altezza. Da qui le epurazioni. Ma a corroborare la tesi dell’insabbiamento c’è la brutta storia del dottor Li Wenliang che, dopo aver avvisato a fine dicembre dalla piattaforma online WeChat che qualcosa di strano stava succedendo nella zona di Wuhan, riceveva la visita della polizia che lo obbligava a ritrattare tutto. All’inizio di febbraio Li Wenliang moriva in ospedale, anche lui, ufficialmente a causa del virus.
La censura stringe le maglie e chi cerca di aggirarla rischia grosso. Chen Qiushi e Fan Bin, avvocato e giornalista rispettivamente, che avevano pubblicato una serie di video sulla precaria situazione degli ospedali di Wuhan, sono scomparsi da giorni. Un altro avvocato, Xu Zhiyong, attivista piuttosto noto, è stato arrestato durante una delle retate che in questi giorni il regime sta portando a termine nel Paese. Ma il caso più eclatante è quello di Xu Zhangrun, professore all’università Tsinghua, già uscito dall’anonimato meno di due anni fa per un articolo in cui criticava la concentrazione di potere nella persona di Xi Jinping. Questa volta ha preso carta e penna per denunciare direttamente la struttura di un sistema repressivo che secondo lui ha favorito, con le sue storture e inefficienze, la propagazione dell’epidemia. Nella sua lettera aperta (che vale la pena leggere per intero), Xu attacca il cuore della dittatura senza mezzi termini, utilizzando argomenti che smontano la menzogna di uno stato autoritario che pretende di accreditarsi come un modello alternativo di sviluppo. Scrive molte cose interessanti il professor Xu Zhangrun: che più di qualsiasi invasione dall’esterno sono “i ladri cresciuti all’interno del Paese” a produrre rovina e distruzione; che le “masse popolari” sono null’altro che pedine e numeri in un sistema di controllo sociale che serve esclusivamente alla sopravvivenza del potere costituito; che il Paese è in mano a burocrati mediocri e incompetenti il cui unico interesse è compiacere il padre padrone; che il sistema di controllo e sorveglianza sempre più invadente sta stroncando sul nascere qualsiasi iniziativa che possa realmente far progredire la nazione; e conclude augurandosi che “vecchi e giovani” alzino finalmente la testa scrollandosi di dosso la rassegnazione che pervade tutta la società: “nuovi castighi mi attendono (…) e questo potrebbe essere il mio ultimo articolo”, avverte alla fine della lettera. Un documento specialmente importante perché utilizza un linguaggio anti-totalitario, in linea con la tradizione dei dissidenti delle repubbliche popolari, assimilabile in questo senso alla famosa Charta ’08 che dodici anni fa scosse le fondamenta del regime con il suo richiamo ai diritti individuali e alle libertà fondamentali. Promossa da Liu Xiaobo, poi lasciato morire di malattia in prigione, e sottoscritta da migliaia di attivisti, intellettuali, leaders rurali, avvocati, professori e perfino funzionari del Partito di livello intermedio, la Charta era un manifesto chiaramente ispirato alle esperienze del costituzionalismo liberale dell’Occidente democratico. Non quindi un “socialismo dal volto umano” in cerca di compromessi con il potere costituito ma un rifiuto frontale della dittatura del Partito Comunista, in nome di quei valori universali che certo relativismo vorrebbe non applicabili alla realtà cinese in base a una non meglio precisata specificità culturale.
L’emergenza, al contrario, ha messo in luce diversi aspetti che smentiscono la narrativa della Cina come “Paese normale”. Due su tutti. Il primo è la capacità di mobilitazione totale che il regime ha dimostrato. Una mobilitazione attiva (la popolazione al servizio del governo nelle attività di monitoraggio e controllo) e una passiva (l’assoluta conformità alle direttive di isolamento). I casi di insubordinazione sono limitati o non emergono per la censura. Il secondo aspetto è la capillarità del controllo, tramite le tecnologie di monitoraggio e riconoscimento e la rete di funzionari del Partito schierati sul territorio. Penso non si sia mai raggiunta una tale pervasività: il 10 per cento della popolazione è virtualmente tagliato fuori dalla vita sociale, un caso senza precedenti nella storia contemporanea.
Più che un regime che si è adattato alla modernità, la Cina è una dittatura che utilizza gli strumenti della modernità in una forma e un’estensione mai viste, portando il concetto totalitario di sorveglianza di massa all’estremo. Quel che colpisce è che la popolazione sembri accettare questa situazione come ineluttabile e se ne faccia strumento. Il punto non è ovviamente disattendere le misure emergenziali ma si potrà continuare come se nulla fosse accaduto quando si tornerà alla normalità? Il fuoco cova sotto la cenere, secondo alcuni osservatori. Il livello di frustrazione è altissimo, come hanno dimostrato le reti sociali nei primi giorni di caos generalizzato, quando la censura non aveva ancora messo in atto tutti i blocchi. La fiducia nella dirigenza, già difficile da misurare in condizioni normali, certamente non crescerà dopo una crisi nazionale di queste dimensioni. Sono speculazioni, certo, ed è impossibile prevedere che impatto avranno gli ultimi avvenimenti su una realtà politica ermetica come quella cinese. Ma anche all’interno del monolite si aprono crepe inattese: proprio ieri alcuni media occidentali hanno pubblicato nuovi documenti riguardanti le modalità di detenzione dei musulmani uiguri nei campi dello Xinjiang. È la terza filtrazione dall’interno del sistema in pochi mesi, chiaramente diretta contro il nucleo duro del regime e il suo leader supremo. Sono le prove generali di una lotta intestina o tutto rientrerà nei ranghi una volta superata l’emergenza? Anche se sembra ancora fantascienza, dopotutto il secolo cinese potrebbe non coincidere con il secolo del Partito Comunista Cinese.