Nelle stesse ore in cui Joe Biden stava formando la sua squadra di politica estera e sicurezza nazionale, l’amministrazione Trump si sforzava di consolidare i risultati raggiunti in Medio Oriente e di blindare il nuovo corso suggellato con gli Accordi di Abramo.
Secondo i media israeliani, infatti, il primo ministro Netanyahu, insieme al capo del Mossad Yossi Cohen, si sarebbe segretamente recato a Neom, in Arabia Saudita, per incontrare il principe ereditario saudita Mohammad Bin Salman e il segretario di Stato Usa Mike Pompeo. Nessun israeliano presente, hanno negato le autorità saudite, mentre da parte israeliana nessuna conferma ufficiale, ma nemmeno smentite. Il che, visto che media autorevoli confermano lo storico incontro, il primo tra il premier israeliano e il principe saudita, vorrebbe dire che la notizia è stata lasciata circolare – e difficilmente senza l’assenso di Riad.
Scopo dell’incontro? Quasi certamente quello di mettere a punto una strategia sul dossier nucleare iraniano, che preoccupa sia Israele che l’Arabia Saudita. E preoccupa ancor di più alla luce del probabile imminente ingresso di Joe Biden alla Casa Bianca. Tra i primi passi della sua amministrazione, infatti, quasi certamente ci sarebbe il ritorno degli Stati Uniti nel Jcpoa, l’accordo del 2015 sul programma nucleare iraniano fortemente voluto dall’allora presidente Obama, pieno di falle che Teheran ha saputo sfruttare. Il ministro degli esteri iraniano Zarif ha assicurato giorni fa che l’Iran è pronto a tornare a rispettare pienamente l’accordo (che in realtà, come vedremo, non ha mai rispettato), senza bisogno di riaprire i negoziati, se gli Stati Uniti faranno altrettanto, se cioè verranno rimosse le sanzioni ripristinate dall’amministrazione Trump. Un passo che il team Biden sembra propenso a compiere (anche per le pressioni del partito e degli alleati europei) presumibilmente subito dopo le elezioni presidenziali iraniane del giugno 2021.
Non è un caso che in questi giorni, immediatamente successivi alla proclamazione – per ora solo mediatica – di Biden presidente-eletto, sia dagli israeliani che dai sauditi siano giunti messaggi espliciti della loro massima e comune determinazione a impedire che l’Iran entri in possesso dell’arma atomica. L’incontro di Neom sembra l’ostentazione di un fronte unito, di una saldatura di interessi: la nuova amministrazione Usa dovrà tener conto della sicurezza di Israele e Arabia Saudita se non vuole innescare una corsa al nucleare nella regione. In ballo, tanto per essere chiari, c’è l’atomica saudita.
Una seconda questione al centro dell’incontro di Neom, strettamente connessa alla prima, è la normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele e Arabia Saudita, con il tentativo di Pompeo di convincere Riad ad unirsi agli Accordi di Abramo già conclusi tra Israele e altri Paesi arabi (Emirati Arabi Uniti e Bahrein) e musulmani (Sudan), prima dell’insediamento di Biden, per blindare, o almeno rendere meno reversibile possibile il nuovo corso che l’amministrazione Trump ha impresso alla politica mediorientale Usa, dall’Iran alla questione palestinese. È evidente che quegli accordi non sarebbero mai stati conclusi senza il via libera di Riad, ma è altrettanto chiaro che i sauditi vedono la loro firma a conclusione e coronamento del processo, non “tra gli altri”. Ora, però, il tempo stringe.
Se Biden, quando entrasse alla Casa Bianca, si ritrovasse con una serie di accordi storici, quasi un sistema di alleanze, che vede Israele insieme ai Paesi arabi del Golfo, sarebbe per lui ben più difficile e costoso tornare alla politica filo-iraniana delle amministrazioni Obama.
Ricordiamo, infatti, che Obama aveva puntato sull’islamismo sciita (Iran) e sunnita (Fratellanza Musulmana) come fattore di stabilità del Medio Oriente, contro le monarchie e i regimi autoritari del mondo arabo (dalla Libia alla Siria passando per l’Egitto) e mettendo da parte alleati storici come Israele e Arabia Saudita. Una scelta che si è rivelata fallimentare e noi italiani ne siamo rimasti particolarmente scottati. A Gerusalemme e a Riad temono una riedizione di quella politica e i nomi della squadra di politica estera e di sicurezza nazionale appena ufficializzati da Biden rafforzano i loro timori.
La scelta di Antony Blinken come segretario di stato e di Jake Sullivan come consigliere per la sicurezza nazionale riportano proprio a quella stagione.
Sullivan è succeduto a Blinken, nel 2013, come consigliere per la sicurezza nazionale dell’allora vicepresidente Biden, dopo essere stato vice capo dello staff dell’ex segretario di Stato Hillary Clinton, ed è stato tra gli uomini chiave dell’accordo sul programma nucleare iraniano.
Blinken è stato vice segretario di Stato dal 2015 al 2017, vice consigliere per la sicurezza nazionale dal 2013 al 2015 e consigliere per la sicurezza nazionale del vicepresidente Biden dal 2009 al 2013. Ed è uno dei principali sostenitori del ritorno degli Stati Uniti nel Jcpoa.
Biden non ha nascosto di essere pronto a tornare nell’accordo, se l’Iran tornasse a rispettarlo, cosa che Zarif si è già impegnato a fare. L’intenzione, poi, sarebbe quella di riaprire i negoziati per procedere ad una sorta di Jcpoa II, come ha spiegato Sullivan, per estendere e rafforzare i termini del Jcpoa del 2015. Ma Teheran ha già fatto sapere di non avere alcuna intenzione di riaprire i negoziati, tanto che l’impegno assunto da Zarif è di tornare a rispettare l’accordo automaticamente dopo il rientro degli Usa e punto.
Ma in questi quattro anni molte cose sono cambiate. L’accordo ha mostrato falle ormai indiscutibili. Per anni, i fautori del Jcpoa hanno negato che l’Iran stava violando e aggirando limiti e divieti. Ma questa posizione è diventata ormai insostenibile dopo che nel 2018 l’intelligence israeliana ha ottenuto migliaia di documenti ufficiali del regime di Teheran sul suo programma nucleare militare. Documenti che provano come il programma fosse molto più avanzato di quanto l’Iran avesse ammesso, come avesse mentito all’Aiea e alla comunità internazionale sul suo programma, e come il regime avesse intrapreso azioni per ingannare gli ispettori dell’Aiea anche durante l’attuazione dell’accordo. E indicano inoltre che alcune attività legate al programma segreto di armi nucleari erano ancora in corso e alcuni siti nucleari segreti sono stati distrutti prima che potessero essere ispezionati dall’Aiea.
Se l’amministrazione Biden dovesse rientrare nell’accordo, quindi revocare le sanzioni reintrodotte da Trump e la sua strategia di “massima pressione”, ciò sarebbe interpretato come una vittoria a Teheran, e dagli altri Paesi della regione come una ricompensa nonostante le sue attività aggressive e destabilizzanti, che probabilmente gli iraniani si sentirebbero incoraggiati a intensificare ed ampliare.
Anche nei confronti della Cina, i nomi scelti da Biden suggeriscono un ritorno al passato. Un approccio multilaterale, riallacciando i rapporti con i partner europei e asiatici, per indurre Pechino ad abbandonare le politiche commerciali scorrette, ma nessuna guerra dei dazi o nuova “Guerra Fredda”.
Ad un evento della Camera di Commercio, Blinken ha detto di ritenere un “totale decoupling” dall’economia cinese “irrealistico e in definitiva contro-producente”, “sarebbe un errore”.
Nel 2015, disse di apprezzare “gli ambiziosi piani della Cina per promuovere la connettività asiatica attraverso rotte terrestri e marittime. Ha impegnato decine di miliardi di dollari nella costruzione di strade e ferrovie per collegare meglio le sue fabbriche e i suoi mercati in Asia e in Europa. E noi sosteniamo questi sforzi per collegare la regione, ma sollecitiamo anche che promuovano il commercio in tutte le direzioni e rispettino le norme internazionali. Ma non vediamo il coinvolgimento della Cina in Asia centrale come un gioco a somma zero”. Peccato che, oggi è più evidente che mai, Xi Jinping non vuole per la Cina un ruolo complementare, cooperativo, nell’ordine liberale guidato dagli Usa, vuole sfidare quell’ordine e la sua leadership.
Ma cosa dovrebbe far pensare che l’approccio che non ha funzionato durante gli otto anni di Obama, che ha provocato disastri in Medio Oriente e fatto avanzare ovunque i nemici e i rivali dell’America, dalla Russia alla Cina, passando per l’Iran, possa funzionare oggi? A meno che, gli stessi interpreti non siano pronti ad una profonda autocritica di quegli anni, ma non ci scommetteremmo.
Insomma, il mood prevalente delle prime scelte di Biden è la nostalgia: da Blinken a Sullivan, da John Kerry inviato speciale per il clima a Janet Yellen al Tesoro, si tratta di figure in netta continuità con le presidenze Obama, che indicano la volontà di Biden di riprendere da “dove ci eravamo lasciati”.
I Democratici – l’ala moderata del partito non meno di quella radicale – sembrano ossessionati dal ripristinare interamente la legacy di Obama e cancellare la presidenza Trump come se non fosse mai esistita, come dimenticare un brutto incubo. A cominciare dal ritorno nell’accordo di Parigi sul clima e nell’Organizzazione Mondiale della Sanità, per proseguire con Medio Oriente e Cina, la volontà sembra essere quella di un totale reset della politica estera Usa, ribaltando tutte le politiche dell’amministrazione Trump, in tutte le aree e su tutti i dossier.
Rischiano però di sottovalutare il fatto che proprio quel passato e quelle politiche a cui vogliono rapidamente tornare contenevano in sé tutti gli elementi che hanno portato alla vittoria di Trump nel 2016.
Quello che vediamo arrivare con Biden è il tradizionale approccio dei Democratici alla politica internazionale, fatto di fede cieca nel multilateralismo e di interventismo liberal, spesso naïf, inconcludente e irresponsabile, che potrebbe andare a sbattere contro un mondo profondamente trasformato, che non sembra più un ambiente ideale per il multilateralismo e la cooperazione.
Il rischio è che Biden e i Democratici trascorrano tutti i prossimi quattro anni a cercare di riportare indietro le lancette dell’orologio ad un sistema internazionale che non c’è più.