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Le radici dell’odio: ecco chi, e cosa, ha avvelenato il dibattito politico negli Usa. E no, non è Trump

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Senza dubbio questa campagna elettorale negli Stati Uniti rimarrà nella memoria come una delle più violente della storia americana. Se si leggono i resoconti forniti dai corrispondenti dei giornali italiani – o, almeno, dalla maggioranza di essi – sembra quasi che la colpa ricada del tutto su Donald Trump e i suoi sostenitori.

Invece la realtà è molto più complessa. Vi è senz’altro una polarizzazione molto forte tra i due partiti in corsa per eleggere il nuovo presidente. In effetti Democratici e Repubblicani non erano mai stati così distanti, e capita spesso di percepire un odio viscerale tra i due schieramenti, espresso anche da personalità di primo piano (soprattutto nel campo democratico).

Il fatto è che la prevalenza del pensiero unico, sorretto dai canoni del politically correct elaborato all’interno di parecchi prestigiosi atenei Usa, ha avvelenato il dibattito politico. Al punto che, nelle università e nei mass media, è diventato praticamente usuale negare la libertà di parola e di opinione a coloro che ai suddetti canoni del politically correct non si adeguano.

E, con tutta franchezza, occorre pur notare che ciò negli Stati Uniti non era mai avvenuto. Il disaccordo c’era, ma non aveva mai impedito a nessuno di esprimere liberamente le proprie opinioni in pubblico. Si tratta di una novità preoccupante.

La nazione leader dell’Occidente rischia di diventare simile ai tanti Paesi autoritari i quali con lo stesso Occidente hanno conti aperti, che cercano di saldare imponendo una visione della politica, della società civile e del mondo tout court alternativi a quelli della democrazia liberale.

Se si aggiunge la diffusione della cancel culture, l’abbattimento senza soste di statue e monumenti e le accuse alla polizia di essere all’origine di ogni male, il quadro è davvero sconfortante. Sono certo che Xi Jinping, gli ayatollah iraniani e i tanti altri autocrati sparsi nel mondo stanno gongolando per le attuali difficoltà americane.

Del resto il leader supremo cinese, spesso definito “il nuovo Mao”, si sforza da tempo di dimostrare al mondo che il modello politico incarnato dalla Repubblica Popolare è superiore a quello occidentale perché garantisce stabilità e continuità nella gestione del potere. E può anche permettersi di schiacciare come mosche i dimostranti di Hong Kong che osano contestare la validità del modello suddetto.

Se ora torniamo agli Stati Uniti, è possibile smontare con facilità la leggenda della polizia violenta che reprime brutalmente le manifestazioni di dissenso. La realtà è che la polizia Usa ha avuto in molte città un numero molto alto di caduti, spesso uccisi per motivi futili.

L’incredibile proposta, appoggiata da esponenti importanti del Partito Democratico, di tagliare i fondi alla polizia (o, addirittura, di abolirla del tutto) ha avuto come conseguenza un aumento della criminalità, del resto già alta nelle metropoli americane. E questo si è verificato proprio nelle città dove alcuni quartieri sono stati dichiarati “liberi” dalla presenza dei poliziotti.

Si noti però una conseguenza importante che, di solito, stampa e mass media non prendono in considerazione. Parecchi giornali scrivono che la comunità nera è compattamente schierata con il movimento Black Lives Matter. Nulla di più falso. Vandalismi e saccheggi hanno colpito in primo luogo proprio negozi e proprietà degli afroamericani, il che ha causato una presa di distanza di molti di loro dal movimento.

Non solo. Questa nuova situazione sta pure causando una forte disillusione di settori consistenti della comunità nera nei confronti dei Democratici, con particolare riferimento alla sinistra estrema del partito (che è potente, e in grado di condizionare le mosse di Joe Biden).

In poche parole, oggi il Partito Democratico non è più sicuro di ricevere nelle urne il voto nero compatto come invece immaginava prima. E un’ulteriore incognita proviene dai latinos, il cui peso elettorale è cresciuto con costanza negli ultimi decenni. Molti di loro sono conservatori. Basti pensare alla numerosissima comunità cubana ostile senza remore al regime castrista, e ai tanti esponenti repubblicani di primo piano che hanno origini ispaniche.

Non a caso i sondaggisti, che prima attribuivano a Biden un vantaggio notevole, ora sono diventati assai più prudenti. Il candidato democratico è ancora in testa, ma con margini più ristretti. Ed è noto che ciò che conta, nel sistema elettorale Usa, è conquistare alcuni Stati chiave, indipendentemente dalla quantità di voti ricevuti sul piano nazionale.

La partita, insomma, è aperta, anche perché Biden – come già si sapeva – non ha molto carisma né spiccate qualità di leadership. La continua insistenza di Trump sullo slogan law and order, anche se criticata dai giornali mainstream, potrebbe alla fine risultare vincente e fare breccia, come notavo prima, anche nelle minoranze ritenute serbatoi democratici per eccellenza.