L’esito dei ballottaggi conferma, anzi rafforza, la nostra analisi della sconfitta del centrodestra dopo il primo turno (“La svolta moderata e i candidati “civici” non pagano, l’astensione punisce il centrodestra diviso e incerto”).
Una sconfitta netta, 5 a 1 nelle città più grandi chiamate al voto. Due dati suggeriscono però al centrodestra di non drammatizzare troppo. Il primo: non governava in nessuna delle grandi città dove ha perso, mentre ha tenuto l’unica delle sei – Trieste – che amministrava, sebbene con qualche difficoltà di troppo.
La seconda parziale attenuante è la tendenza ormai in atto da anni, ovunque nel mondo occidentale, che vede i grandi centri urbani votare a sinistra e la destra scarsamente competitiva. Dunque, ragionare sull’offerta politica, sulla classe dirigente, sulla strategia e sulla coesione della “coalizione”, ma cadere in depressione ed autoflagellarsi, anche no.
È vero, alla tendenza che vede un po’ ovunque i partiti conservatori non riuscire nemmeno a toccare palla nelle grandi città, in questa tornata elettorale si sono sommati gravi errori del centrodestra, che ha sbagliato tutto ciò che poteva sbagliare.
Della debolezza dei candidati si è parlato fin troppo – e fin troppo presto la si è data per scontata nel campo dello stesso centrodestra. Ma è una debolezza che prim’ancora dal valore personale (sono consapevole di attirarmi la derisione di qualcuno, ma credetemi Michetti non era più mediocre di Gualtieri…), è dipesa dal profilo “civico” dei candidati. Hanno perso infatti tanto candidati politicamente mediocri, come a Milano, quanto candidati più preparati, come a Torino. L’errore qui è stato piuttosto quello di voler inseguire la sinistra, con un decennio di ritardo, sulla moda dei candidati “civici” e “tecnici”.
Servivano candidati politici – e non per forza i leader (candidare Salvini e Meloni avrebbe significato farli fuori dal campo di gioco nazionale). Non sappiamo dire se la rinuncia a candidature politiche derivi da una carenza di classe dirigente o da una sudditanza psicologica, quasi che per ricevere la patente di presentabilità i partiti di centrodestra non possano presentarsi con i loro volti, ma di certo non siamo in una fase politica in cui si vincono le elezioni convincendo quella fascia sempre più ristretta di elettori che sinceramente prendono in considerazione tutte le opzioni e scelgono di volta in volta, “laicamente”, destra o sinistra.
La polarizzazione è forte e si vincono le elezioni innanzitutto mobilitando il proprio elettorato, cosa che la sinistra è riuscita benissimo a fare – sfruttando al massimo l’assist del Viminale – giocando la sempreverde carta dell’antifascismo. Se non riesci a trasmettere entusiasmo ai tuoi, il senso di una battaglia che valga la pena essere combattuta, una vera posta in gioco, non vai da nessuna parte, anche se convinci qualche indeciso al centro.
Il risultato di Roma può apparire scontato a urne chiuse, ma la sinistra ha avuto il merito di non prendere sotto gamba la corsa, tanto da procedere dall’inizio – aiutata chiaramente dalla “Bestia rossa”, la sua potenza di fuoco mediatica – alla scientifica demolizione del candidato avversario, tanto da farlo apparire già in partenza, prima che aprisse bocca, come una macchietta e un perdente. In questo, i partiti (e i media) di centrodestra devono imparare ad avere meno scrupoli.
Il centrodestra comincia anche a pagare un prezzo alto per la sua disarticolazione a livello nazionale, che i governi regionali non bastano più a nascondere. Due pezzi fanno parte del governo Draghi e un pezzo è rimasto all’opposizione. Nella Lega, è sempre più manifesto il divaricamento tra LegaSalvini e LegaEuro (rileggere Musso su Atlantico Quotidiano).
Preliminarmente ad un dibattito di idee – per il quale l’ultimo libro di Daniele Capezzone “Per una nuova destra” offre solide basi di partenza – serve chiarezza circa l’esistenza stessa di una coalizione di centrodestra, perché per qualcuno sembra diventata un taxi: serve quando si tratta di governare a livello locale, mentre a livello nazionale sono ormai dieci anni che i tre principali partiti non governano insieme e prendono strade diverse anche quando sono all’opposizione, finendo alcuni per sostenere governi di sinistra. Una situazione che alla lunga non può non generare confusione e minare la credibilità stessa della coalizione.
Già iniziato dopo il primo turno, si rafforzerà dopo i ballottaggi il processo a Salvini e Meloni da parte anche dei politici e commentatori di area centrodestra, che contribuiranno così a potenziare lo spin della sinistra, finalizzato come sempre a dare patenti di presentabilità: immancabilmente la destra presentabile è quella meno competitiva nelle urne. Spoiler (ma ci arriveremo anche con il ragionamento): provate a ricordare chi sono stati, di volta in volta, i leader di centrodestra più odiati e quelli più vezzeggiati, nei loro diversi momenti di consenso elettorale.
Ma è davvero una “disfatta sovranista”? Ha perso il centrodestra che ha “strizzato l’occhio ai no-vax“, ai no-green pass, ai razzisti e ai fascisti, insomma agli impresentabili di ogni risma, i deplorables. E quindi, il rimedio sarebbe stringersi ancora di più intorno a Draghi?
Francamente, i dati e la logica dicono ben altro.
Innanzitutto, date un’occhiata alla performance dei tre partiti. Forza Italia in caduta verticale, dal 3 per cento di Roma (insieme all’Udc) al 7 di Milano. La Lega lontana dalle percentuali di politiche ed europee. L’unico della coalizione che ha tenuto, anzi è cresciuto in termini percentuali, è Fratelli d’Italia. Certo, anche il “suo” candidato ha perso, ma a Roma il partito della Meloni correva praticamente da solo.
Se proprio si vuole trarre un’indicazione a livello nazionale della sconfitta del centrodestra, non si può non tenere presente che l’unico partito che ha tenuto, Fratelli d’Italia, è anche l’unico all’opposizione del governo Draghi e quello che più degli altri ha “strizzato l’occhio ai no-pass“, mentre Forza Italia, quello più governativo e favorevole al Green Pass, ha percentuali da lista civica e la Lega, con la sua ambiguità di partito di lotta e di governo, finendo probabilmente per scontentare gli elettori di entrambi gli orientamenti, esce fortemente ridimensionata.
Guardiamo anche ai candidati sindaco. Nessuno era un facinoroso e becero sovranista o no-vax. Moderati come Occhiuto e Dipiazza hanno fatto bene in Calabria e a Trieste, ma gli altrettanto moderati Bernardo a Milano (primario di pediatria al Fatebenefratelli) e Maresca a Napoli (un magistrato!) hanno fallito clamorosamente. Lo stesso Michetti a Roma, indicato da Fratelli d’Italia, almeno nel linguaggio da amministrativista, aveva le sembianze del tecnico compassato, non del capo-popolo. La linea Giorgetti? Ha perso Damilano a Torino e persino il feudo “giorgettiano” di Varese è caduto nelle mani della sinistra.
Insomma, non c’è “linea” tra quelle oggi espresse dai partiti di centrodestra – governativa e pro Green Pass, opposizione sovranista, o via di mezzo leghista – che si possa dire sia stata premiata nelle urne, e probabilmente proprio questa confusione ha disorientato gli elettori, ma quella interpretata dalla Meloni ha raccolto in termini di voti senz’altro più delle altre, tanto da essere stata oggetto delle “attenzioni mediatiche” della sinistra, che ha ripescato la pregiudiziale antifascista, nelle ultime due settimane di campagna.
E infine, il dato dell’astensione, più alto nelle periferie, che viene abbastanza concordemente ritenuto abbia danneggiato più il centrodestra che il centrosinistra.
Perché dunque gli elettori potenziali del centrodestra non si sarebbero recati alle urne? Per avere Salvini e Meloni “continuamente occhieggiato al popolo no-vax sposando appieno la battaglia contro il Green Pass“?? L’elettore delle periferie non corrisponde esattamente all’elettore tipo “moderato”, ma in ogni caso, se quello è stato il motivo, perché restare a casa e non guardare alla vasta scelta di candidati convintamente sì-vax e pro Green Pass?
Vero, quelle no-vax sono posizioni minoritarie (quelle no-pass non così tanto…), ma allora perché gli elettori di centrodestra non hanno almeno premiato Forza Italia e i molti candidati a sindaco che non hanno “occhieggiato”? Perché nemmeno un flebile segnale?
La nostra lettura è che l’astensionismo record – al netto della debolezza dei candidati e degli altri fattori già citati – si debba non ad una disattesa richiesta di adesione convinta ai vaccini e al Green Pass, e in generale di “moderazione” nel segno dell’europeismo, ma al riflusso di disillusione e rassegnazione, in un’ampia fetta di elettorato, per la compiuta normalizzazione del Movimento 5 Stelle e per quella – in corso – della Lega.
Il primo quasi sparisce, la seconda arretra. E guarda caso sono le due forze politiche che in questi mesi hanno più mutato la loro identità. Forze politiche che avevano costruito i loro successi elettorali su una avversione radicale all’establishment e una profonda critica all’Ue. In un batter di ciglio, i 5 Stelle si sono messi al servizio di quell’establishment. Inizialmente, nel biennio 2019-2020, la Lega se ne è avvantaggiata, intercettando in parte i grillini delusi, ma pochi mesi dopo ha iniziato lo stesso percorso alla corte di Draghi. Un trasformismo nei palazzi che si trasforma in sfiducia e astensionismo nelle urne.
Al di là di ogni giudizio di merito, queste mutazioni nei due partiti che più di ogni altro avevano dato voce a istanze di cambiamento così radicali, hanno rafforzato nei loro elettori la percezione, già presente, della totale inutilità del voto: votare per proposte politiche diverse dal Pd e i suoi satelliti non serve a incidere sulle decisioni dei “palazzi”, sull’azione di governo. Perché andare a votare se c’è comunque il “pilota automatico” inserito?