Ebbe corso, tanto tempo fa, la XVIII legislatura della Repubblica Italiana. La cui storia assai curiosa ci accingiamo a riassumere.
Prima battaglia – Essa si aprì il 23 marzo 2018, dopo il trionfo elettorale del partito della rivoluzione. Nella forma di due movimenti, uno sinistro ed uno destro, detti eversivi, anti-sistema, rivoluzionari. Rivoluzionario certamente era il concetto che li rese così popolari: #Fuoridall€uro per l’uno, Basta €uro per l’altro. Fu questa l’unica battaglia vinta dal partito della rivoluzione.
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Seconda battaglia – Di fronte ad esso, solitario ed abbacchiato, il partito dell’ordine. Nella forma del movimento conservatore e reazionario per eccellenza, il Pd. Tanto abbacchiato da indurre uno dei due movimenti anti-sistema, quello sinistro, a farsi esso stesso movimento di sistema. Non di un nuovo sistema però, bensì del sistema vecchio rinunciando al concetto rivoluzionario. Col bel risultato di evaporare elettoralmente e finire ancella dell’originale nel quale aveva desiderato incarnarsi. Fu questa la prima di tre battaglie vinte dal partito dell’ordine.
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Terza battaglia – Ciò spalancò praterie al secondo dei due movimenti anti-sistema, quello destro. Fu allora che una epidemia influenzale venne presentata come fosse la peste bubbonica. E fu terrore, e fu stringiamoci a coorte. Fu allora che un maxi-prestito condizionato quanto nemmeno quelli del FMI venne presentato come fosse l’albero degli zecchini. E fu consenso per tutti coloro che, sino a quel dì, il popolo aveva schifato. Fu questa la seconda di tre battaglie vinte dal partito dell’ordine.
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Quarta battaglia – Il movimento anti-sistema destro poteva aspettare che la propaganda passasse, mostrare le menzogne pandemiche, indicare a dito le condizioni mostruosamente impopolari. Invece niente, perse la testa. Non solo credette nell’albero degli zecchini ma, peggio, si affidò mani e piedi al gatto e alla volpe.
Alla volpe, in particolare, che mostrava un curriculum tutto speciale: Antonveneta, la lettera con Trichet, il Fiscal Compact, la Grecia, il macello delle banche italiane. Puro abominio per un elettore di destra. Dolce melodia per i politici di destra, colti dallo stesso morbo che aveva colto il movimento anti-sistema sinistro: il desiderio di farsi movimento di sistema rinunciando al concetto rivoluzionario.
E venne la volpe. E col lockdown, il Green Pass e il panico del tampone riuscì nell’impossibile impresa di uccidere il rimbalzo dell’economia italiana. E col super Green Pass escluse gli italiani disobbedienti dai diritti di cittadinanza, come prima di lui solo il vecchio Duce. Il tutto col consenso dei due movimenti già anti-sistema. Felici, questi ultimi, di scambiare i propri elettori con le vuote promesse del nuovo Duce. Fu questa la terza di tre battaglie vinte dal partito dell’ordine. Il cui trionfo non poteva dirsi più pieno.
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Quinta battaglia – Di fronte ad esso, il partito della rivoluzione orfano di rappresentanza politica era completamente disarmato. Al punto da indurre il partito dell’ordine a dividersi. Prima impercettibilmente. Tanto che, ancor oggi, appare difficile comprendere cosa separò i sostenitori del gatto dai sostenitori della volpe: forse solo la differente camarilla, l’appartenenza a due diversi raggruppamenti della stessa élite indigena, in lotta fra loro per accreditarsi coi poteri esterni che facevano il bello ed il cattivo tempo nel Paese. Non una diversa crudeltà nei confronti degli indigeni, visto che facevano a gara a chi ne comprimeva i redditi ed i diritti più gravemente. Non la politica economica, visto che mai ne mostrarono una diversa.
Poi fragorosamente, quando si trattò di scegliere il nuovo capo dello Stato. E fu lacerazione del movimento già anti-sistema sinistro, il cui capo combatté apparentemente contro la candidatura di Draghi, invero contro le proprie opposizioni interne. E fu lacerazione del movimento già anti-sistema destro, ove la sfida era non solo interna al movimento, ma pure interna alla coalizione dove sedeva un certo altro movimento di destra, ufficialmente all’opposizione del governo eppure pronto ad eleggerne il primo ministro a capo dello Stato.
In entrambi i movimenti già anti-sistema, così, l’elezione presidenziale si trasformò nella sfida fra mozioni congressuali, nessuna delle quali metteva in discussione la rinuncia fatale al concetto rivoluzionario. Infatti, la vittoria dei capi non rappresentò affatto il ritorno al partito della rivoluzione, bensì: per il movimento già anti-sistema sinistro, la comoda accoglienza nella fazione vincente del partito dell’ordine; per il movimento già anti-sistema destro, la scomoda costruzione di una ipotetica terza fazione del partito dell’ordine, la quale avrebbe dovuto chiamarsi partito repubblicano, federazione moderata o chissà che altro.
Avvenne così che la maggioranza di governo non si spaccò formalmente, votando opposti candidati. Così negando al primo ministro l’opportunità di giocare la propria carta migliore, le dimissioni. E, in tal modo, egli venne battuto. Il che fu cosa buona e giusta. Ma così fu pure che chi aveva miseramente perso le elezioni popolari, ebbe di nuovo in mano il Paese.
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Sesta battaglia – Lo sconfitto indugiò nei lussuosi saloni del primo ministro, ad immaginare una riscossa. Armi ne aveva. Poteva organizzare i propri seguaci in qualche nuova combinazione. Poteva cogliere il capo del movimento già anti-sistema destro in mezzo al guado, sulla strada della fantomatica federazione moderata, magari imponendogli la ratifica del Nuovo Trattato MES. Poteva trasformare la competizione con la fazione vincente del partito dell’ordine in una lotta nel fango. Ma doveva fare in fretta: l’iceberg incombeva e le vuote promesse a cavallo delle quali egli era giunto, si sarebbero presto rivelate tali. Sui giornali, ormai, i nemici gli suggerivano di “chiamarsi fuori”.
Di tutto ciò, la fazione vincente del partito dell’ordine parve cosciente. Quanto alle vuote promesse dello sconfitto, esse erano state pure le promesse della fazione vincente e forse fu per quello che il capo dello Stato rieletto presentò dei veri e propri indirizzi di governo opposti alle politiche del governo ed adatti a delegittimarlo, con l’entusiasta eco del resto della fazione vincente. Quanto all’iceberg, esso incombeva per tutti e pareva saggio lasciare Draghi a Chigi a prenderselo in faccia nel tempo delle elezioni, per giunta dimissionario cioè rappresentante di nessuno.
Non pareva necessario attendere una nuova legge elettorale maggiormente proporzionale in quanto, come abbiamo visto, la contrapposizione fra amici e nemici del primo ministro sconfitto era, in ciò che era stata la destra, ben più profonda che in ciò che era stata la sinistra.
Niuno dubitava che, alle perplessità mostrate in materia di scioglimento anticipato delle Camere, il capo dello Stato avrebbe saputo rinunciare con la stessa disinvoltura con la quale aveva rinunciato alle perplessità mostrate in materia della propria rielezione.
Concorrevano, a tali determinazioni, certi referendum minacciati in tema di giustizia. Cosa sarebbe accaduto se di essi si fosse impossessato il primo ministro appena battuto? Occorreva, quindi, impedirli. Idealmente attraverso una celere e cosmetica riforma di iniziativa governativa, ma non sarebbe stato possibile senza il concorso del Draghi battuto. In subordine, falciandoli per la via del vaglio della Corte costituzionale, ma farlo con tutti non sarebbe stato prudente. Sicuramente, rinviandoli per la via di elezioni generali anticipate.
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Settima battaglia – Elezioni generali anticipate, a contrapporre, questa volta, non il partito dell’ordine al partito della rivoluzione. Quest’ultimo destinato a non essere rappresentato in Parlamento, ovvero solo da un gruppuscolo di testimonianza. Bensì le due (o forse tre) fazioni del primo, fra loro misteriosamente divise ma programmaticamente compatibili. E con il capo dello Stato appartenente alla fazione vincente, lì ad esercitare i poteri legittimi di nomina del primo ministro e quelli usurpati nel 2018 di nomina dei ministri.
Cosa avrebbe potuto andare storto?