Ci sono costanti che si ripetono regolari, ostinate, con una certezza granitica che nessuna pandemia può scalfire. Una di queste è la ripresa degli scontri tra fazioni palestinesi e israeliani, col corollario di odio a senso unico vomitato nei mass e social media contro Israele, quello Stato pecora nera di ebrei che non ci stanno a farsi sterminare una seconda volta, andando tranquilli al macello come ordinarie e rassicuranti pecore bianche.
L’antisemitismo è oggi più vivo che mai. Ai rivoli di acqua nera dell’estrema destra si sono aggiunti da tempo i torrenti di odio che sgorgano da sinistra. Immancabili le accuse più improbabili contro Israele, in cui si cerca di coprire la puzza di razzismo anti-ebraico con un alibi ormai impossibile da sostenere persino con le stampelle: “Io sono antisionista, non antisemita”.
L’analisi dozzinale degli odiatori professionisti dello Stato ebraico si regge su una serie di luoghi comuni, tanto comuni e dati per scontati quanto falsi e storicamente assurdi. Tre in particolare fanno presa nell’immaginario comune: l’idea che in passato gli ebrei abbiano cacciato l’originaria popolazione palestinese; l’equiparazione tra israeliani di oggi e nazisti di ieri; la lotta indomita e pura dei palestinesi per la loro libertà.
Sono ovviamente accuse e affermazioni senza fondamento, ma che vale la pena analizzare nuovamente, per capire come, soprattutto a sinistra (ma non solo), si sia disposti a sacrificare la verità in nome di prese di posizione puramente ideologiche.
Una terra da sempre palestinese? – Quante volte ci siamo sentiti dire che in quelle terre abitavano da secoli i palestinesi, fino all’arrivo dei malvagi coloni sionisti (non a caso spesso definiti banchieri ed usurai, altro classico stereotipo dell’antisemitismo) che li avrebbero espropriati delle loro terre ancestrali. La realtà è molto, ma molto diversa.
Vale la pena ricordare che, prima ancora dell’insediamento dei primi coloni sionisti nel 1884, Gerusalemme era già a maggioranza ebraica. Così come c’erano altre comunità ebraiche stanziate da secoli, in quella che in effetti è da secoli una terra ebraica, ad esempio quella di Hebron.
I palestinesi (che non esistono in quanto tali come popolo, essendo arabi, di lingua araba, di religione in massima parte musulmano sunnita) altro non sono che i discendenti degli arabi immigrati in primis dai territori circostanti, e poi da altri Paesi di cultura islamica, attratti dalle opportunità lavorative create dai coloni sionisti. Joan Peters, nel libro “Da Tempo Immemorabile”, spiega come a cavallo tra il XIX ed il XX secolo la popolazione araba in Terrasanta aumentò di due volte dove non c’erano insediamenti ebraici, e di ben cinque volte dove invece venivano fondati kibbutz e comuni agricole.
Ancora oggi al-Masri (ossia l’egiziano) è uno dei cognomi più diffusi tra i palestinesi, soprattutto a Gaza. Ulteriore conferma dunque che non si tratta affatto di “indigeni”.
Questa menzogna è strettamente collegata ad un’altra: i buoni palestinesi sarebbero stati cacciati con la forza dai cattivi israeliani. La realtà però è completamente differente.
Bernard Lewis, uno dei più grandi studiosi dell’islam, recentemente scomparso, testimone oculare degli eventi nel 1950, raccontava che la gran parte dei palestinesi non fu cacciata, ma abbandonò volontariamente le proprie case e le proprie terre, sia perché sobillata dai propri capi che non volevano alcun accordo con gli ebrei, sia perché spaventata dall’andamento del conflitto (aperto dagli Stati arabi della regione).
Un fatto confermato da Emanuele Ottolenghi, ex docente di Politica israeliana e Storia del conflitto arabo-israeliano all’Università di Oxford, che a proposito della presunta espulsione dei palestinesi parla di mito non suffragato dalla storia, ma usato per fini politici dalla leadership palestinese. Numerose anche le prove documentarie in proposito:
“Non bisogna dimenticare che l’Alto Comando arabo ha incoraggiato gli arabi a fuggire dalle loro case a Jaffa, Haifa e Gerusalemme e che alcuni leader arabi hanno tentato di trarre vantaggio politico dalla miserabile condizione dei fuggiaschi”.
(Radio Near East di Cipro, 3 aprile 1948)
“Gli Stati arabi, che hanno incoraggiato gli arabi di Palestina ad abbandonare le loro case temporaneamente per non ostacolare gli eserciti invasori, non hanno mantenuto le promesse di aiutare questi profughi”.
(dal quotidiano giordano Falastin, 19 febbraio 1949)
“Il fatto che vi siano questi rifugiati è una diretta conseguenza delle azioni degli Stati arabi contro la spartizione e lo Stato ebraico. Gli Stati arabi concordano con questa politica unanimemente e devono condividere l’onere della soluzione del problema”.
(Emile Ghoury, segretario dell’Alto Comitato Arabo Palestinese in un’intervista al Beirut Telegraph, 6 settembre 1948)
“Il 15 maggio 1948 arrivò… Quel giorno il muftì di Gerusalemme si appellò agli arabi di Palestina affinché lasciassero il paese perché gli eserciti arabi stavano per arrivare e combattere per loro”.
(dal quotidiano cairota Akhbar el Yom, 12 ottobre 1963)
“Per la fuga e la caduta degli altri villaggi sono i nostri capi ad essere responsabili a causa della loro propaganda di voci che esageravano i crimini degli ebrei e li descrivevano come atrocità per infiammare gli arabi. Diffondendo le voci di atrocità ebraiche, uccisioni di donne e bambini ecc., hanno indotto paura e terrore nei cuori degli arabi di Palestina fino a farli fuggire lasciando le loro case e proprietà al nemico”.
(dal quotidiano giordano Al Urdun, 9 aprile 1953).
Un’altra prova è costituita dalla stessa Dichiarazione d’Indipendenza di Israele, che contiene un invito agli arabi a partecipare pacificamente alla costruzione del nuovo Stato. D’altra parte, non si capisce come gli ebrei avrebbero potuto “rubare” le terre agli arabi, visto che la Terrasanta era stata prima sotto controllo ottomano e poi britannico.
Ci sono infine un paio di altre considerazioni da fare: se davvero gli arabo-palestinesi furono cacciati dalle loro case, come si spiega la presenza oggi di oltre un milione e mezzo di arabo-israeliani, che sono a tutti gli effetti cittadini dello Stato di Israele, con i loro partiti alla Knesset e giudici alla Corte Suprema? Arabo-israeliani che, vale la pena ricordarlo, ben si guardano dal passare da minoranza in Israele a maggioranza nei territori controllati da ANP o Hamas, e che mai rinuncerebbero alla loro cittadinanza.
E ancora, se cacciata ci fu, perché non risulta alcuna espulsione di massa da Gaza e Cisgiordania, dopo la loro occupazione da parte israeliana in seguito alla Guerra dei Sei Giorni?
La verità, invece, è che i coloni sionisti procedettero ad acquistare (non rubare) le terre su cui poi sarebbe sorto lo Stato ebraico, tramite l’istituzione nel 1920 del Keren Hayesod, il fondo nazionale di costruzione d’Israele, che si occupava per l’appunto di raccogliere fondi per comprare terre nel Mandato di Palestina.
Si tratta di considerazioni fondamentali, soprattutto per il fatto che gli antisemiti odierni negano alla radice la legittimità dello Stato di Israele. È la posizione ad esempio dell’ex leader del partito spagnolo Podemos, Pablo Iglesias, che ha definito Israele un Paese illegale.
Iglesias evidentemente ignora che Israele è invece pienamente legittimo secondo il diritto internazionale, grazie alla Dichiarazione Balfour del 1917, ad una risoluzione vincolante del 1922 della Società delle Nazioni, ed alla risoluzione non vincolante numero 181 dell’Onu del 29 novembre 1947 (quella che spartiva il territorio in uno Stato arabo ed uno ebraico, accettata dagli ebrei e respinta dagli Stati arabi vicini che iniziarono la guerra).
Israeliani come nazisti? – La seconda grande menzogna su cui si fonda l’odio per Israele e l’antisemitismo organizzato è più recente e grossolana nella sua assurdità, ma non per questo meno pericolosa.
Viene da sinistra il paragone infamante tra Israele e Germania nazista. Secondo i paladini a corrente alternata dei diritti umani (sempre silenziosi quando palestinesi vengono uccisi da altri palestinesi), gli israeliani oggi si starebbero comportando come nazisti. La calunnia è talmente grande che stupisce come si possa crederla vera.
Come noto i nazisti praticarono un genocidio contro gli ebrei europei, uccidendone oltre 5 milioni. Si può forse dire lo stesso dei palestinesi? Un semplice controllo su Wikipedia ci informa che oggi ci sono circa 13 milioni di palestinesi (di cui quasi cinque milioni tra Gaza e Cisgiordania), a fronte dei 750 mila arabi che lasciarono i territori dove poi sorse Israele nel corso della guerra del 1948-49. In sostanza, nel giro di 70 anni i palestinesi sono aumentati di 13 volte.
Nessuno a sinistra sembra fino ad ora essere stato in grado di spiegare il miracolo demografico di un popolo che soggetto a genocidio, anziché diminuire si moltiplica. Sulla stessa falsariga, si sprecano le accuse che considerano Gaza e Cisgiordania come campi di concentramento.
Una versione più edulcorata sostiene che Israele stia praticando una politica di apartheid contro gli arabi. L’accusa non può che apparire insultante a chi ha subito per davvero la discriminazione in Sudafrica, ed infatti c’è chi ha criticato con forza ogni accostamento. È il caso di Kenneth Meshoe, parlamentare sudafricano e leader dell’African Christian Democratic Party. Meshoe, che ha avuto modo di visitare Israele più volte, considera le accuse di apartheid contro Israele delle assurdità, bugie su cioè che è realmente Israele e su cosa fu realmente l’apartheid.
Gli arabo-israeliani da parte loro si sentono talmente discriminati che, quando anni fa gli israeliani proposero all’ANP la cessione di alcuni villaggi a maggioranza arabo-israeliana in cambio dell’annessione di alcune colonie sul confine, furono proprio gli abitanti di quei villaggi a protestare, esibendo con orgoglio il loro passaporto israeliano.
E che dire degli arabi che vivono a Gaza e in Cisgiordania? Uno studio del 1999 su 3.617 adulti tra i 18 e i 64 anni di età aveva evidenziato un terzo del campione in sovrappeso. Secondo l’Oms (basta una semplice ricerca online per scoprirlo) oltre un quarto dei palestinesi può essere considerato obeso. Numeri che male si accordano con quelli che ti aspetteresti in un campo di concentramento.
Il giornalista israeliano Ben-Dror Yemini riporta a sua volta statistiche che, ancora una volta, sono un pugno nello stomaco ai sostenitori del presunto apartheid israeliano: i palestinesi (perlomeno quelli a Gaza e in Cisgiordania) hanno una aspettativa di vita di 74-75 anni (la media globale è di 72 anni), la mortalità infantile più bassa del Medio Oriente (13 per mille ed in costante diminuzione), il più alto tasso di laureati del mondo arabo (il 49 per cento della popolazione scolarizzata).
Impossibile a questo punto credere alla propaganda che vede nei soldati con la stella di David tanti piccoli SS. Soprattutto quando si considera che migliaia di palestinesi si recano ogni giorno in Israele a lavorare e che a migliaia hanno già ricevuto assistenza medica direttamente negli ospedali israeliani. Non risulta invece che i nazisti curassero bambini ebrei negli ospedali tedeschi.
Il mito della “liberazione” – C’è infine il sempreverde mito della guerra di liberazione, dove al basco di Che Guevara si sostituisce la keffiah a scacchi, che fa tanto esotico e profuma di lotta anti-coloniale. Mito caro alla sinistra che ama cavalcare le onde del ribellismo, finendo per annegare in un mare di conformismo. Tuttavia, porsi e porre certe domande è necessario per capire.
Se davvero i palestinesi lottano per uno Stato tutto loro, perché colpiscono i civili in Israele anziché i militari in Cisgiordania? Perché lo statuto di Hamas parla della distruzione dello Stato di Israele?
E soprattutto, la domanda da sempre inevasa a sinistra: perché i palestinesi mai presero le armi contro Egitto e Giordania che, in barba alle risoluzioni Onu, occuparono i territori spettanti agli arabi di Palestina per ben 19 anni? Forse che alcune occupazioni siano più occupazioni di altre, per parafrasare George Orwell?
Ci sarebbe poi da chiedere conto alla sinistra filo-araba della sua distrazione durante l’occupazione siriana del Libano, ma l’imbarazzo per un eventuale interlocutore sarebbe forse troppo.
A questo punto sarebbe persino retorico chiedere perché, soprattutto a sinistra, non ci si scaldi particolarmente per altre cause (i tibetani o più recentemente gli uiguri oppressi dai cinesi, per fare degli esempi), o per rimanere in ambito mediorientale, per il modo in cui i palestinesi sono stati e vengono tutt’ora trattati dai loro fratelli arabi (la loro espulsione dal Kuwait dopo la I Guerra del Golfo, le discriminazioni legali cui sono soggetti in Libano, gli eventi del 1970 noti come Settembre Nero).
In tutti questi casi non è possibile nemmeno con un notevole sforzo creativo far ricadere in qualche modo la colpa su Israele e su quello che rappresenta: un modello di sviluppo basato sulla civiltà capitalista-liberale, unico esempio nell’area, in grado di portare a livelli inimmaginabili di prosperità e libertà individuali uno Stato che non ha petrolio ed è ancora in parte oggetto di odio dei vicini, sui quali non può contare.
Un successo che rappresenta un’onta imperdonabile per chi ha fatto sua la retorica del mondo occidentale sempre e invariabilmente sfruttatore, così da avere un comodo capro espiatorio da una parte ed una scusa (auto)assolutoria per le sue presunte vittime dall’altra.
Una retorica che accomuna gli antisemiti, tanto dell’Occidente quanto del Medio Oriente, uniti nel comune odio contro Israele e ciechi di fronte alle responsabilità oggettive della leadership palestinese.