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Leadership, religione e libertà: cosa Papa Bergoglio dovrebbe imparare dalla Regina Elisabetta

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L’aura di sacralità che avvolgeva i pontefici ora è stata sostituita da un velo di moralismo che ha ben poco di cristiano e che non è in realtà molto diverso da quello in cui si ammantano i leader delle sinistre occidentali. La Chiesa sembra oggi preferire, almeno per voce della sua guida, il dialogo con i governi a quello con le anime

Hanno avuto molta risonanza le parole di Papa Francesco durante la benedizione urbi et orbi pasquale: il pontefice ha lanciato un appello alle nazioni per una nuova solidarietà, richiamando l’attenzione su un tema scottante come quello del debito dei Paesi poveri di cui, dice il Papa, sarebbe giunta l’ora di valutare una cancellazione. Chi scrive da cattolico sa quanto i discorsi del Papa, pregni di una retorica che troppo spesso tende al socialismo, vengano accolti di malumore dai fedeli: in un momento come questo, in cui il credente chiuso tra le mura di casa sente forte il bisogno di una “dottrina spirituale”, la Chiesa sembra curarsi solo della “dottrina sociale”, o peggio della “dottrina politica”.

La “leadership” (se così possiamo definire un pontificato) di Francesco è sicuramente una delle più discusse nella storia della Chiesa, e la sua presa e il controllo su quanto sta accadendo appaiono meno saldi che nelle mani dei predecessori. L’aura di sacralità che avvolgeva i pontefici (basti ricordare Pio XII, chiamato Pastor Angelicus) ora è stata sostituita da un velo di moralismo che ha ben poco di cristiano e che non è in realtà molto diverso da quello in cui si ammantano i leader delle sinistre occidentali.

La Chiesa sembra oggi preferire, almeno per voce della sua guida, il dialogo con i governi a quello con le anime. La dimensione spirituale lascia oggi il posto a una dimensione materiale, come materiali sono i fini della stragrande maggioranza dei discorsi papali: si parla sempre invariabilmente di “qualcuno di potente” che dovrebbe fare “qualcosa”. L’appello a un valore come la solidarietà, che è fondante della nostra civiltà occidentale, perde totalmente di significato se rivolto a un governo: lo Stato non dà scelta ai cittadini in merito alle tasse, e la solidarietà è tale quando viene dall’individuo, non quando all’individuo viene imposta. Parlare ai governi e alla società è il modo più sicuro per non arrivare alle anime: rivolgersi a pure entità impersonali non tocca il cuore del cristiano che oggi come non mai ha bisogno di spiritualità, di un messaggio di speranza e di vicinanza in un momento terribile per la nostra società.

Non è un azzardo affermare, come ha fatto Charles Moore dalle colonne del Telegraph, che l’ultima leadership religiosa rimasta nella civiltà cristiana occidentale è quella della Regina Elisabetta.

Naturalmente i ruoli non sono paragonabili: Elisabetta è sul trono dal 1952, è un capo di Stato e si trova lì per diritto ereditario: il suo volto è stampato su una buona fetta della moneta in circolazione nel mondo in questo momento, e certamente quando pensiamo a lei non la colleghiamo subito alla dimensione religiosa.

La Regina però non perde mai di vista il suo dovere come capo della Chiesa anglicana: i suoi discorsi, che conciliano questa figura con quella del capo di Stato, contengono sempre un riferimento a quei valori condivisi e comuni che hanno fatto grande il Regno Unito. L’ultimo Queen’s Speech ne è stato un esempio: la capacità di questa donna di riuscire a parlare direttamente alle persone, di fare appello ai loro migliori sentimenti senza scadere nell’eccesso e nella banalità è disarmante se paragonata alle goffe uscite del Papa e alle sue continue intromissioni in faccende politiche che, in quanto tali, non lo riguardano.

Francesco ha molto da imparare da Elisabetta: una salda convinzione nei principi, l’appello alla parte migliore delle persone e una certa dose di self-control permettono all’istituzione britannica di rimanere un punto di riferimento anche nel mondo di oggi, dove i “riferimenti” in quanto tali tendono a cambiare per ciascuno alla velocità della luce. La retorica pauperistica e il continuo cercare di instillare un “senso di colpa” nelle persone non risolveranno la crisi di identità della Chiesa, che non si misura semplicemente nel numero di fedeli presenti alle funzioni, ma nella perdita di un patrimonio culturale e storico che ha contribuito in modo innegabile a disegnare l’Occidente come oggi lo conosciamo.