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L’economia continua a dividere Lega e M5S: a lungo andare la crisi intaccherà anche i consensi di Salvini

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Le ragioni per le quali questo governo è nato e deve sopravvivere per un lasso di tempo non ancora del tutto determinato sono note e già sufficientemente analizzate, quindi non ci torniamo. Sappiamo altresì molto bene come finora l’alleanza gialloverde sia risultata assai funzionale all’incremento di voti e di popolarità di Matteo Salvini ed abbia rappresentato una strada obbligata per il M5S, altrimenti a rischio di emarginazione politica, pur con una percentuale elettorale molto alta. Ma è altrettanto evidente la difficoltà di Lega e M5S ad intendersi serenamente e soprattutto in maniera produttiva, sul terreno dell’economia, del rilancio del Paese, caduto di nuovo in recessione, e del fisco. Il passo è stato spedito, e ci mancherebbe, in merito all’immigrazione clandestina e all’approvazione della legge sulla legittima difesa. Quota 100 e reddito di cittadinanza sono divenuti realtà, come promesso in campagna elettorale. Ma a proposito di questioni tutt’altro che marginali, Tav ed economia in primo luogo, si è preferito e si preferisce la politica del rinvio, utilizzando la formula non poi così magica del “salvo intese”.

I temi economici fanno venire a galla tutte le differenze, anche culturali e mentali, fra la Lega e il Movimento 5 Stelle. Così è fatale che il Def esca senza riferimenti numerici circa le aliquote fiscali e la flat tax perorata da Salvini, com’è quasi normale che, in particolare da Di Maio ed altri pentastellati, giungano dichiarazioni dal sapore vagamente democristiano. Dire tutto per non dire nulla. Quando due forze politiche, che governano insieme una nazione, appena diventa necessario ragionare sul portafogli dei cittadini, rivelano di pensarla in maniera molto diversa e, per evitare di attaccarsi reciprocamente più del dovuto, accantonano o rimandano le faccende più scomode, la fiducia di famiglie ed imprese non può che diminuire giorno dopo giorno. La crescita economica, utile anche a rendere meno inquietante l’aumento del deficit e il debito pubblico, viene spinta in primo luogo da politiche intelligenti e da riforme fiscali, ma riceve un importante input anche dalla fiducia generale di lavoratori ed imprenditori. Questi ultimi, se stimolati ad investire nel loro Paese, anziché a fuggire all’estero, possono determinare la crescita più e meglio di qualsiasi legge.

Purtroppo, almeno una parte della maggioranza, e il pensiero corre subito al Movimento 5 Stelle, rivela un approccio pauperista per quanto riguarda le principali sfide economiche e sociali di un’Italia già piuttosto povera per conto suo, e non bisognosa davvero di ulteriore povertà. Se Matteo Salvini è in buonafede, quindi intende sul serio liberare l’Italia dal giogo fiscale e burocratico, non pensi di ottenere grandi risultati, e neppure di fare uscire presto il Paese dalla recessione, con un alleato come il M5S. Non è stato facile adesso e non lo sarà nemmeno in futuro, trattare con Di Maio circa una benefica svolta riformatrice e liberale in economia. Oltre all’insipido Def, Luigi Di Maio ci ha deliziato in questi giorni con delle uscite che la dicono lunga sull’impostazione e la mentalità pentastellate. C’è, senza dubbio, dell’improvvisazione, manifestata, per esempio, in merito alla flat tax progressiva (sic!).

Ma esiste ancora un pregiudizio ideologico pauperistico, che un tempo caratterizzava la sinistra comunista, ovvero l’odio e l’ossessione verso i cosiddetti ricchi. Ancor prima della nascita del topolino, ovvero il Def del Governo Conte, il vicepremier pentastellato ha iniziato ad agitarsi, facendosi pubblicamente garante di una sedicente flat tax non tenera con i ricchi. Chi ha ancora il portafogli pieno, può permettersi senza dubbio di pagare le tasse senza troppi stress, mentre i ceti medi e bassi spesso devono scegliere se versare l’obolo allo Stato o mangiare, ma, caro Di Maio, non si risana un Paese attraverso il giustizialismo sociale ed impoverendo i pochi ricchi rimasti. Semmai sarebbe opportuno arricchire il più possibile i tanti poveri.

Fatte salve le motivazioni contingenti dell’esistenza di questa maggioranza, nel lungo periodo gli inevitabili tira e molla con il M5S, in particolare in campo economico e sociale, potrebbero far perdere a Salvini il sostegno di tutta quell’Italia produttiva che ha scelto la Lega, e probabilmente la sceglierà ancora alle prossime elezioni europee. Il leader leghista si deve guardare più da Di Maio che da Marine Le Pen ed altri alleati europei. Aggiungiamo ciò, perché Luigi Di Maio, fra le varie esternazioni degli ultimi giorni, si è detto preoccupato delle alleanze europee di Salvini con i negazionisti e gli antisemiti. Per l’economia italiana, pare francamente più preoccupante una lunga durata dell’alleanza gialloverde che i summit salviniani con i sovranisti di altri Paesi europei. Marine Le Pen, per esempio, a causa di una visione statalista dell’economia e di persistenti pregiudizi anti-occidentali, non può essere granché apprezzata da un punto di vista liberale, ma, fra i suoi difetti, non riusciamo ad intravedere né il negazionismo sulla Shoah e nemmeno forme, più o meno striscianti, di antisemitismo. La leader del Front National, ora Rassemblement National, è forse l’unico personaggio politico al mondo ad aver ripudiato il proprio padre, Jean-Marie, proprio per le sue posizioni negazioniste circa lo sterminio nazista degli ebrei.