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L’economia mondiale post-Covid-19: una globalizzazione meno sino-centrica

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La pandemia da Covid-19 è una tragedia di dimensioni globali, e tutto il mondo, quasi nessuno escluso, quando riuscirà ad uscirne, sarà un luogo molto diverso rispetto a quello che abbiamo conosciuto finora. In tanti sono convinti di questo ed hanno le loro buone ragioni. Nel momento in cui, chissà quando, si potrà tirare un sospiro di sollievo in tutte le aree del pianeta, perché il calo di contagi e di decessi si confermerà dappertutto giorno dopo giorno, forse proseguirà per un lasso di tempo indeterminato, anche in assenza di lockdown, una certa paura nell’intraprendere, per esempio, una vacanza all’estero, sebbene ci si possa contagiare maggiormente nella propria zona di residenza che non a migliaia di chilometri di distanza. Ma sedersi accanto ad uno sconosciuto a bordo di un aereo creerà ansia per un po’ in almeno una parte di persone, nonostante tutti i dispositivi di protezione possibili ai quali faranno senz’altro ricorso le compagnie e i Paesi più seri. Molti manterranno il distanziamento sociale pur tornando ad uscire di casa e saranno più guardinghi di fronte a spazi o eventi che prevedono assembramenti di persone, anche perché il senso di responsabilità può scaturire pur in assenza di obblighi e multe. La convivenza con il virus, perché occorrerà conviverci una volta terminata l’emergenza più dura, cambierà il comportamento di numerose persone, e chissà, una certa diffidenza sociale potrebbe perdurare persino dopo la scoperta, si spera non troppo lontana, di una terapia efficace o di un vaccino. Il coronavirus è così destabilizzante ed aggressivo da lasciare inevitabilmente il segno per qualche anno.

Proprio per questo l’economia mondiale sarà l’altro grande e fondamentale aspetto che subirà più di una ripercussione. Nell’immediato non si tratterà di mutamenti positivi perché vi sarà una contrazione di crescita e di occupazione destinata a non risparmiare nemmeno quelle aree economiche più forti come Stati Uniti e Cina. Poi, come è già successo dopo la crisi globale del 2008, alcuni reagiranno meglio e riusciranno a recuperare le posizioni perdute, ed altri si trascineranno a lungo in una pozzanghera che può trasformarsi in letali sabbie mobili. L’Italia, purtroppo per noi, rischia davvero di ritrovarsi fra questi ultimi soprattutto se il livello di classe dirigente rimarrà il medesimo di oggi.

È una riflessione ricorrente quella secondo cui la tragedia del coronavirus stia seppellendo anche la globalizzazione economica. In effetti, quando si parla di globalizzazione si pensa subito alla Cina e agli scambi commerciali fra questo enorme Paese e il resto del mondo, cresciuti vigorosamente negli ultimi vent’anni. Il Covid-19 si è ormai espanso a tutte le latitudini, ma il dramma ha avuto inizio in una delle province della Repubblica Popolare Cinese, e questo è un fatto storico ed accertato, indipendentemente dalle origini “volute” o naturali del virus, in merito alle quali si discuterà ancora. Donald Trump non parla di “virus cinese” solo per il semplice gusto di provocare. Quindi non bisognerà sorprendersi se le relazioni politiche ed economiche fra gli Stati Uniti, ed almeno una fetta di Occidente, e la Cina, diventeranno sempre meno scontate e più complicate. Bisognerà prima o poi mettere il regime di Pechino di fronte alle proprie gravi responsabilità. Senza nemmeno avvicinarci alla questione del virus da laboratorio oppure, per così dire, da pipistrello, già notiamo numerosi comportamenti colpevoli da parte della dittatura comunista cinese. Per alcuni mesi hanno nascosto al mondo intero l’esistenza dell’aggressiva infezione polmonare, che ha iniziato a circolare nella provincia di Hubei forse già a partire dall’ottobre scorso. Quei medici ed esperti cinesi i quali si sono permessi di lanciare un allarme anzitempo e senza autorizzazione da parte delle autorità, sono stati silenziati – anche per l’eternità e ci siamo capiti. Le menzogne di regime purtroppo continuano tuttora circa il numero delle vittime cinesi del coronavirus. Risulta sempre più difficile credere che in una nazione popolata da miliardi di individui il virus abbia ucciso solo poco più di 3.000 persone.

In questo terribile tsunami, che sembra non voler risparmiare nessuno, esistono senz’altro eccezioni ed esempi incoraggianti come la Corea del Sud e Taiwan, i quali, pur trovandosi in una posizione geografica assai più rischiosa rispetto a quella di Europa e Stati Uniti, sono riusciti a contenere contagi e decessi in maniera importante. Ma a Seul e Taipei esiste la forza della tecnologia (ciò che vorremmo anche in Italia), mentre a Pechino, nella lotta al Covid-19, la forza pare essere stata soltanto quella del bastone. Ci si può fidare del regime cinese solo se si ha l’intenzione di vendersi consapevolmente ad esso come sembrano esserne tentati alcuni settori della politica italiana, ma il mondo, in particolare le democrazie occidentali, non può permettere che la Cina di Xi Jinping la passi liscia. Diventerà necessario rivedere quindi quella globalizzazione economica dove la Cina era determinante e preponderante.

Nel cosiddetto villaggio globale di questi giorni quasi nessuno sta viaggiando e gli aerei parcheggiati a terra sono più numerosi di quelli in volo, ma fra poco occorrerà ripartire, internamente alle varie nazioni e poi per quanto riguarda la circolazione internazionale di persone e merci. Oltre alle precauzioni del momento nessuno, nemmeno quei Paesi più forti a livello economico, può pensare di rifugiarsi a lungo in una sorta di autarchia di mussoliniana memoria. L’interscambio e il commercio internazionale sono vitali ed inevitabili per l’economia moderna, e ridimensionare il ruolo cinese non può certo equivalere a far tornare il pianeta agli anni ’50. Semmai, sarebbe opportuno potenziare più di quanto fatto finora gli scambi transatlantici fra Europa, Stati Uniti e Canada, ovvero far risorgere l’Occidente come centro economico del mondo. L’America Latina, attraverso realtà come il Brasile e il Messico, continua ad offrire importanti opportunità. Se si vuole guardare all’Asia ci si occupi un po’ meno di Pechino e un po’ di più, per esempio, della Corea del Sud e dell’altra Cina, ossia la Repubblica di Cina meglio nota come Taiwan, spesso colpevolmente ignorata da una parte dell’Occidente intenta a non irritare il regime di Xi Jinping. Sudcoreani e taiwanesi rappresentano peraltro una partnership affidabile anche dal punto di vista politico e militare. Si tratterebbe di una globalizzazione più di qualità che di quantità. Molto dipenderà dall’esito delle prossime presidenziali americane perché se Donald Trump verrà riconfermato alla Casa Bianca, vi sarà più di una ragione per credere alla possibilità di uno schema diverso dell’economia mondiale, che potrebbe influenzare giocoforza anche l’Europa, per quanto le classi dirigenti del Vecchio Continente siano oggi perlopiù impegnate a farsi le scarpe fra di loro, quelle franco-tedesche e nordiche, oppure a flirtare con Pechino, quelle italiane colorate di giallo-rosso. Il presidente americano ha aperto un confronto con la Cina da diverso tempo, da ben prima dell’esplosione del coronavirus, ed oggi non tace sulle enormi colpe del Dragone. Mentre lo sfidante Joe Biden è il prosecutore di quella politica democratica, obamiana e clintoniana, che ha sempre puntato tutto sulle buone relazioni economiche sino-americane.

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